Un tempo – quel tempo di cui si dice che è molto lontano perché ormai nessuno ricorda più quando fosse, né esiste più chi possa averne ancora memoria – viveva una bambina con una rara malformazione. Era nata così, povera piccina, il babbo e la mamma inizialmente pensarono che con il passare dei mesi i suoi occhi avrebbero mutato colore, invece rimasero trasparenti come piccoli diamanti, limpidi e brillanti.
La piccola si chiamava Amabile e dal momento che anche la più debole luce poteva accecarne la vista – così aveva dichiarato con austera solennità l’oculista – andava sempre in giro con dei grandi occhiali da sole e ne aveva già collezionato così tanti, di mille forme e colori, da poter aprire un negozio e cominciare a venderli in proprio.
Tutti l’ammiravano in cuor loro per il coraggio che dimostrava uscendo di giorno e la notte attendevano impazienti il buio sperando di poterne rapire lo sguardo che la mamma ed il babbo andavano raccontando fosse un incanto. Ma la bambina neppure di notte poteva esporsi a luna e stelle e se di giorno le oscure lenti le consentivano autonomamente di muoversi e giocare, la notte, come in un cassetto, era costretta a ripiegare le attese contando le ore fino al mattino, ascoltando le storie che mamma, dal bordo del letto le andava narrando e che non facevano altro che accrescere in lei la curiosità di scoprire come fossero tutti gli altri colori e se dipendesse dal fatto che i suoi occhi non ne avessero alcuno, che tutto per lei si dovesse ridurre al grigio, seppur nelle molteplici varianti delle gradazioni.
Che vita triste povera piccina, senza il calore dei colori, senza mai poter vedere la luce del sole rischiarare i lineamenti dei volti amati, vivendo di profumi, suoni ed immaginazione … eppure nessuno l’aveva mai vista piangere, sembrava che del diamante avesse preso qualcosa anche il cuore.
Non aveva amici perché chi mai avrebbe cambiato un arcobaleno con una striscia meno grigia di cielo?
Passata la curiosità della scoperta, tutti si allontanavano come si fa davanti ad un mistero destinato a rimanere senza soluzione.
Un giorno mentre Amabile era in giardino totalmente persa nella vertigine dei profumi, del ronzio operoso delle api e del cinguettio degli uccelli sentì una voce chiedergli: “perché tieni sempre quelle buffe lenti?”
Quel giorno in effetti ne aveva indosso un paio molto stravaganti, tonde e fonde, come se avesse sul naso due grandi bicchieri.
Si girò e vide un monello che la sbirciava arrampicato come un gatto sul muretto del suo angolo segreto, quello dove neppure mamma e babbo avevano mai messo piede, il suo nascondiglio perfetto.
Perché rispondergli? Se avesse fatto finta di nulla, magari avrebbe pensato che era anche sorda e se ne sarebbe andato via più in fretta. Ma quello rimaneva a guardarla in silenzio, quasi stesse lì solo per farle un dispetto.
Amabile lo fissava attraverso le sue fitte lenti e vedeva solo un ombra piccola e smilza, con in testa, si, in testa aveva di certo qualcosa, forse un berretto. Decise che lo avrebbe ignorato, prima o poi si sarebbe di certo stancato e così fu, scomparve presto senza una parola, furtivo com’era arrivato.
Il giorno seguente la bambina tornò nel giardino pensando che era necessario trovarsi un altro posto segreto, più segreto del primo e con sua grande meraviglia vide quella smilza figura aggirarsi indaffaratissima proprio nel suo angolino.
“Che fa qui?” – si chiese – ma non sufficientemente a bassa voce, perché lui la sentì e prontamente rispose: “ti costruisco un rifugio, non lo vedi?”
“Un rifugio? Non serve, ormai non è più un posto segreto”.
“Si che lo è, io non lo dirò a nessuno”
“Ma tu sai dov’è, perciò non è sicuro”
“Non ti fidi di me?”
“No”
“Non siamo tutti uguali sai?”
“Si lo so, io sono diversa”
“Ed anch’io lo sono”
Amabile fissava quell’ombra senza nome che aveva portato nuovi suoni ed odori e pensò che per scegliere un nascondiglio che fosse davvero segreto avrebbe dovuto aspettare l’indomani, così si allontanò frastornata dal rumore che quella piccola figura tutta sola era capace di fare.
Quando la luce cominciò a far distinguere i contorni delle cose, Amabile si precipitò in giardino, ma con sua grande sorpresa vide, nel suo vecchio posticino, una stranissima costruzione fatta di tante piccole pareti, ciascuna di esse era uno specchio che le restituiva i gesti della sua ombra ansimante e curiosa e quella smilza di … “sei già qui?”
“non me ne sono mai andato”
“ma i tuoi non ti cercano, non staranno adesso in ansia per te?”
“no, sono abituati alle mie assenze”
“cos’è questa … cosa?”
“è un cofanetto a forma di brillante, un brillante fatto di specchi”
“un brillante?”
“si, è da tanto tempo che ti seguo e credo di aver capito il tuo segreto, vedi io sono sicuro che da qui dentro potrai guardare il mondo senza quelle buffe lenti”
“ma cosa ne sai tu? Babbo dice che se le tolgo, non vedrò più il grigio come adesso, ma solo il nero”
“ma se non provi ti rimane il grigio, è sempre solo un unico colore”
“si, ma mi permette di vederti, di vedere almeno la tua ombra muoversi, con il nero non ti distinguerei dalla notte”
“non succederà, gli specchi rifletteranno la luce lontano dai tuoi occhi e rimarrà un chiarore che senza accecarti ti permetterà di vedere non solo le forme, ma anche i colori, i lineamenti del viso, capisci? Vedrai il mio viso! Non vuoi conoscermi? Non vuoi poter vedere come sono fatti i fiori che ami, le api, gli uccelli e l’erba dei prati?”
“si, lo desidero più di ogni altra cosa”
“e allora vieni, entriamo insieme, porterai i tuoi occhiali e se dovessi sentire dolore li rimetteremo in fretta, non può accadere nulla se saremo insieme e faremo in fretta”
Amabile aveva un tremito alle mani, le nascose subito nelle tasche dei calzoncini, aveva deciso, avrebbe rischiato, non capiva, ma sentiva con tutta se stessa che doveva fidarsi, che poteva fidarsi di quell’ombra che ora si era fatta vicina, le frugava nella tasca, le stringeva la mano nella sua calda, ferma, sicura.
Entrarono insieme poi lui le tolse delicatamente gli occhiali.
Amabile schiuse pian piano gli occhi, una luce tenue e gentile illuminava il rifugio ed un viso dai tratti irregolari la fissava dritto negli occhi: “tu sei luce, hai la luce dentro, io lo sapevo, sapevo che non mi sbagliavo!” – esclamò il monello con il viso illuminato dagli splendidi occhi della bambina.
Amabile lo vedeva bene, anzi benissimo ed esclamò: “tu sei colore!”
E pianse, pianse di gioia, abbracciandolo forte.
Amabile si sentiva guarita e con lei tutta la realtà che la circondava, tutto era curato! Lasciò cadere le lenti e fissando i suoi occhi limpidi in quelli scuri e profondi del suo tenace amico, gli chiese: “ma tu, come ti chiami?”
“Mi chiamo Nero, proprio come il colore, quello di cui avevi terrore”.
Antonella Foderaro