Sentire le parole come fossero gocce di pioggia, scollare quelle emozioni sospese nel mondo dell’essere, sconfinare in terre che non ti appartengono perché quando sei uno spettatore non c’è storia che può colmarti. Apparteniamo nella misura in cui cediamo qualcosa, siamo strada quando veniamo attraversati dal peso del vivere. Ma vivere significa recidere e tessere, filare i fili del corpo e della mente in luoghi sicuri e oscuri. Spesso fuggiamo dalla meraviglia del sentire, ci rifugiamo in stanze fredde, spoglie di pensieri, nude di passioni perché non abbiamo voglia di restare in bilico tra il noi e l’eterno fluire. Con facilità ci indebitiamo, prendiamo in prestito spicchi di felicità con la speranza che qualcuno non si ricordi di noi. Quanto tempo gettato nella pattumiera offrendosi al nascosto, ordini che sbaragliano i nostri più intimi desideri, principi che incrinano i nostri più decisi pensieri. Quanti sguardi persi nel vuoto concedendosi al trascorso, senza muovere un dito, senza urlare un rifiuto. La luce si spegne sempre quando i sogni sono impazienti di entrare così la paura del buio sovrasta ogni nostro piccolo gesto e gli interruttori cosa fanno, dove sono? Sentire le parole come fossero tempeste d’estate, aderire alle emozioni vive nell’universo dell’essere, restare nell’acqua e nuotare perché quando sei un pesce non c’è luogo dove chiudere gli occhi e riposare. Apparteniamo nella misura in cui doniamo qualcosa così mettiamo in disordine quel poco che resta di sensato seguendo ininterrottamente una nuvola di fumo disinteressata alle nostre richieste. Fermi, immobili ascoltiamo tutto lo scorrere dei giorni, ricordando figure e movimenti, momenti veri come quelli che arriveranno perché appartenere significa in definitiva trattenere. Con tutto il respirare del corpo, appisolati su pensieri che sbiadiscono lentamente, camminiamo sui nostri sbadigli ad aspettare un cenno, un suono, un assenso e così girati su un lato restiamo ad aspettare quel tanto sospirato sognare.
Francesco Colia