(Immagine IA)
L’inizio si circonda di pregiudizi e presupposti che non hanno a che vedere con la purezza
di un viaggio. La sorpresa e la meraviglia si aprono come ali, in volo su nuvole sfuggenti e
struggenti.
Le orme sono tracce indelebili, piccoli ricami di ricordi lontani e fortunati.
Nonostante il tempo scivoli come un tronco trasportato dalla corrente di un fiume, un sorriso antico si tinge di colori e tesori.
C’è un posto dove poter arrestare ciò che non si vuole lasciare? Così come un colibrì solitario si cerca di evitare, di scappare, fili che non legano perché una marionetta è più semplice da governare che apprezzare e tutto sembra cadere come le palline di una collana spezzata. I fili si tramutano in file di quotidianità, strade da percorrere, luoghi da scorrere come pagine di una rivista piena di foto e parole sempre più piccole e vuote.
Arriva la schiuma del mare a riportare tutto a riva, prima genesi di un tramonto tondo e di un mondo fin troppo sordo. Tutto segue una direzione e nulla può illuminare il buio travestito di abiti seducenti, il secolo non è più un passato remoto ma un futuro prossimo. Le richieste si fanno largo violentemente in uno spazio stretto per urlare le loro ragioni ma in fondo a cosa servono le spiegazioni se ogni decisione ti riporta al punto di adesione?
Avanza il giorno come un’illustrazione di un tempo in fibrillazione, chiuso in un barattolo di biscotti, troppo cotti, troppo sciocchi, sciolti come una vecchia cera malinconica. Il sipario restituisce l’essere nel mondo come una fonte di ispirazione, segnali che indicano il nostro recitare dentro un teatro piccolo e fatale.
Dove si trovano gli strumenti per codificare i suoni del domandare? Comprendere è sempre un flusso distinto da un istinto facile all’arrembaggio, pirati in cerca di forzieri pieni di risposte e proposte. Eppure, ci muoviamo in questo spazio che non sembra voler ascoltare le nostre ragioni, le nostre emozioni così il corpo si sposta alla ricerca di un tempo che possa lenire le nostre delusioni. Arriva la perdita, non nella forma della sconfitta ma nella dimensione della solitudine di essere un oggetto svanito nel silenzio più sconfinato di un dire mai sensato. Sono gabbie costruite su fondamenti solidi, parole collegate da vuoti insoliti e tutto sembra una giostra di cavalli colorati e luci che si sciolgono come gelati.
C’è un termine che non conduce a una fine, un fine, è il tumulto del capire che non c’è liberazione nella comprensione perché ogni accettazione è solo una fragile occasione. Tante lettere, schiave di un padrone che non vuole la loro opinione, ma soltanto la loro sottomissione e la loro potente combinazione.
C’è un posto dove poter parlare senza avere la sensazione di essere un trascurabile affare? La fine si separa dal viaggio per negare ogni possibile coraggio e nulla è colmo. Il piede stanco lascia dietro il passaggio di un pedaggio sempre solo e in ostaggio, così il galeone naviga in tempeste siderali senza soli o stelle da scrutare…e il cielo è lì, silenzioso, ad attendere l’inevitabile.
Francesco Colia