C’è un’emergenza, luci riflesse in ogni direzione chiamano costantemente la nostra attenzione, così sospesi tra vento e luce restiamo aggrappati alla nostra condizione. Quanti buffi conigli escono dal cappello, ordini mai richiesti, sorprese mai attese, loro fuori mentre dentro il vuoto. È lo scorrere del tempo che dolcemente ci trascina, in fondo, sul fondo, nascosti da una densa sabbia bianca, dipinti come dune addormentate. Sfuggire ad ogni possibile parlare, lasciarsi alle escoriazioni del pensare perché basta poco per rassicurarci del nostro minuscolo vagare. Tracciamo linee sul terreno per delimitare cosa si vuol fare da quello che si vuol oscurare, non desideriamo perire nel grigio mentire dell’apparire così urliamo il nostro divenire. Reclamiamo sostanza, curando forma e materia nella logica più smodata, nella qualità meglio confezionata. Contenuti in scatole sterili, ci abbandoniamo al sentire e opponiamo strenuamente ogni tipo di resistenza al facile definire. Così siamo ciò che gli altri sono, un’unica gradazione, un sapore, un colore. Dismesse le emozioni in bicchieri di cristallo, sorseggiamo, privati del sapere più sicuro, spogliati del vivere più duraturo. Le auto sono in sosta, non hanno strade da percorrere, non hanno luoghi da soccorrere, le auto sono mute come il nostro essere, parcheggiate in un viottolo, nascoste in un ciottolo così quello che il tempo ci sottrae noi lo concediamo senza un briciolo di resistenza. Si può difendere l’intimo esistere da quel manto insidioso del nostro ferire? Molte domande sorvolano il cielo, lasciando scie bianche e impalpabili, occhi paralizzati fissano meravigliati una risposta fumosa, di un senso pieno di dissenso mentre la speranza è sempre quella di cambiare, di cambiarla. Chiedere sembra la cosa più scontata, chi non sente il bisogno di capire quello che avviene nel mondo del dire? Tuttavia, i suoni continuano il loro disegno impreciso e deciso, perpetuo e armonioso nel loro semplice colpire e restano, investono, calpestano. C’è un’emergenza, luci soffuse in pallide direzioni silenziosamente aspettano così siamo ciò che gli altri non sono, la più bella gradazione, un cuore, un’emozione.
Francesco Colia
Direi a Francesco: fino a che c’è un’ “emergenza” del pensiero, delle emozioni, della parola che resiste, si può affermare che l’uomo r-esiste, che l’uomo è vivo, che ancora non si è estinto. Certo, il lavoro-lavorio dello ‘spirito’, di quel nucleo profondo e nascosto (sempre più nascosto) che non si acquieta -quasi fosse una sorta di coscienza terminale, ultima,- non è un’operazione tranquillizzante, una sorta di pratica di nobile e intellettuale “otium”; certo l’emergenza critica (come riflessione sul contingente in attrito con l’immanente -se pure un immanente esiste-) è un continuo posizionarsi al margine di mondo e storia, nel fondo del divenire che sembra mai avere fermi e rallentamenti, ma nel divenire e nella storia, in definitiva, o ci si lascia essere oppure si tenta di esserci. Ed esserci significa coscienza, significa consapevolezza, richiede che si pongano domande e che si pretendano risposte, richiede all’Io -prima che a qualsiasi altro ente fisico o metafisico- il radicamento in un Senso. E la ricerca di un Senso dichiara senza ombra di dubbio che se ne è perduta la direzione, la consistenza: Teseo non ha più filo, Teseo si è perduto. Perduto ma non rassegnato, perduto ma non battuto dai Minotauri che si aggirano famelici nel Mondo e che da sempre infestano ed infesteranno la Storia.
Ci si muove male al buio o anche nella luce incerta del crepuscolo (di deità, ideologie, utopie); si urta, ci si ferisce, ci si lascia prendere dall’angoscia (che Senso ha Esserci se non si sente di Essere?), ma ancora una volta mi ritrovo a pensare che l’uomo è tragico, non fragile, che Teseo -da sempre- ha una missione: liberare Atene dal giogo del Minotauro, tagliargli quella sua testa animale, estirpargli quel suo cuore animale, un cuore ed una testa che non sanno la luminosità del Logos, che non sanno interrogare le stelle, che non sanno cosa sia la Trascendenza. E senza Trascendenza non si ha Utopia, senza Trascendenza (come superamento della condizione bestiale in cui l’uomo è lupo dell’uomo, e tutti sono contro tutti – dice Hobbes-) non è possibile nemmeno la Speranza. Quella Speranza che solo fino ad alcuni decenni fa sembrava ancora viva e palpitante, e che in questa grigia postmodernità contabile sembra svanita, sepolta dallo Spettacolo della vita (o vita come spettacolo), dal luccichio di carne e metallo, dal rumore di un chiacchiericcio che si autoalimenta e non lascia spazio a quel momento ‘rivoluzionario’ che si chiama riflessione e critica.
Ecco Francesco, concordo con te quando decidi di titolare questo intervento con l’inserimento del lessema “emergenza”, una parola che ben esemplifica e dichiara due necessità, due stati di fatto: una condizione antropologica che richiede azioni urgenti e correttive, un pronto soccorso per l’anima e per il mondo in cui l’anima deve stare, e una realtà -diciamo mentale ed intellettuale insopprimibile- con cui ogni generazione, ogni fase storica deve comunque fare i conti, la realtà dell’emersione della critica e di quel suo essere comunque e sempre sentinella non solo della ragione “illuministica” ma anche seme per l’avvenire, e perché no, per l’Utopia. In fondo non abbiamo ancora inventato il migliore dei mondi possibili, ma chi l’ha detto, stabilito, che si debba vivere e rassegnarsi all’ennesima versione di un mondo peggiore?
“Si può difendere l’intimo esistere da quel manto insidioso del nostro ferire?”
Ci proviamo, a difenderci e a non offendere, ma non sempre ci riesce.
Il segno che lasciamo, parola o forma o gesto, è comunque invasivo per l’altro.
Anche l’amore, infine, che per quanto ci possa sembrare poetico, alato, è sempre un’intrusione nel cuore e nella mente di chi si ama.
Senza, non riusciamo a vivere, e nella comunicazione tentiamo di uscire dal nostro labirinto che, se mai condivisibile totalmente, tuttavia ci permette una sorta di trasparenza nell’esprimerci. Altrimenti nulla sarebbe scritto o detto e ciascuno resterebbe un’isola irraggiungibile.
Sono una sognatrice. Una divoratrice di libri. Una che non può stare troppo tempo lontana dal suo mare. Una creativa. Una veterana di notti intere passate a chiacchierare. Una mancina. Una mangiatrice di Coco Pops. Un’osservatore arbitrale (con l’apostrofo). Una musica-dipendente. Una vegetariana. Una sopravvissuta. Un piccione viaggiatore. Una radioascoltatrice. A lover (not a fighter). Un’aspirante bassista. Un’ex-studentessa fuori sede. Una spettatrice di tramonti. Un’esploratrice. Un’ipercinetica. Una pigra. Una che ascolta. Una cinematografara impunita. Una variabile impazzita. Ho parlato per più di cinque minuti davanti a 5000 persone, dal vivo. Ho toccato cinque continenti, e ho intenzione di continuare, a loro sembra che piaccia. Ho scritto cose che sono state pubblicate. Ho cantato davanti a un pubblico e spero che non esistano prove. Ho ricevuto dei premi all’estero e delle occhiate di sufficienza in patria. Ho contribuito ad animare la più grande comunità italiana online a tema erotico. Ho stretto la mano a David Byrne, e possiedo una collezione di baciamano famosi. Ho vissuto un debutto animato alla presenza del presidente della Repubblica italiana. Ho condiviso partner, ma mai spazzolini da denti. Ho avuto paura. Ho fatto spavento. E una volta ho persino perso una lente a contatto.