Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali (…) vidi un magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa nell’atto di inghiottire un animale. (…) Meditai a lungo sulle avventure della giungla. E a mia volta riuscii a tracciare il mio primo disegno. Il mio disegno numero uno.(…) Mostrai il mio lavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: “Spaventare? Perché mai uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?”
Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante.
(Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe)
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Il nostro sguardo non è capace di cogliere l’invisibile e la nostra ragione meccanicamente trae le proprie conclusioni ed emette i propri rigorosi giudizi basandosi esclusivamente sull’evidenza di un’apparenza. Su quest’ultima poi costruiamo velocemente opinioni, atteggiamenti, relazioni, la stessa considerazione che abbiamo di noi stessi e degli altri.
Ci sentiamo speciali se qualcuno, meglio se molti, ci riconoscono come tali, delle perfette nullità se in tutto ciò che facciamo o diciamo, non troviamo riconoscimento, ossia non veniamo visti, come quel boa che digerisce un elefante …
Naufraghiamo o veleggiamo sulla superficie mutabile del visibile.
Perché ciò che appare è per noi così importante? L’essere umano affonda le radici del proprio essere nel mistero e fiorisce solo alla luce dell’evidenza? Siamo speciali o qualcosa ci rende tali?
Se si strappa la radice è inutile affaticarsi per il verde delle foglie e forse è dentro il cappello che riposa quell’autenticità che solo può cogliere chi non si muove appena sull’altro, ma in lui sprofonda senza timore dell’abisso della differenza.
Spesso le parole servono da ventaglio per nasconderci allo sguardo di quanti, dietro l’increspatura dell’onda, sanno riconoscere il fondale, ma di cosa abbiamo veramente paura?
Cos’è che ci rende fragili, le fondamenta o l’altezza?
In un roseto, cos’è che distingue il profumo di una rosa da un’altra? Neppure il giardiniere sarebbe in grado di scegliere la più bella, eppure se da un qualsiasi giardino prendessimo una “qualunque” rosa per farne un dono, essa sarebbe speciale per chi la riceve e noi sempre più confusi potremmo convincerci che prima di quel momento essa non fosse, invece era già una rosa. Lo era prima che ne facessimo un dono, prima che noi stessi la vestissimo di significato e lo rimarrà anche dopo che smetteremo di sentirne il profumo e quando ce ne saremo dimenticati.
La “specialità” allora non è altro che una proprietà dell’essere che non sempre e non tutti siamo capaci di cogliere perché il suo manifestarsi, spesso silente, non cattura la nostra attenzione.
Essere amati, sentirsi amati è una radura attraverso la quale filtra la nostra bellezza, una dichiarazione di visibilità del nostro essere speciali.
Non amare, non sentirsi amati in fondo cos’è? Custodire gelosamente il proprio intimo segreto perché non venga calpestato da chi, senza esserci luce, vorrebbe solo scartarci come fa un curioso con un dono di cui non sa il valore. Nessun fiore può sbocciare senza la fiducia della terra.
Essere speciali allora non coincide con il sentirsi speciali (perché non c’è essere che non lo sia, anche inconsapevolmente) e quando ingenuamente disegniamo l’elefante dentro il boa, spinti dal desiderio di volerci seriamente spiegare, facilmente verremo derisi e mal consigliati da quei severi ed onesti misuratori del visibile sempre pronti a pesare la quantità e ad applaudire alla forma, perché incapaci di cogliere l’essenza.
L’apparenza depauperata dal profumo del segreto dell’essenza, viene ridotta a cosa e come cosa tra le cose, giudica e divora. L’esperienza della derisione o del semplice fraintendimento può condurre alcuni ad una temporanea paralisi vissuta in un nascondimento scelto come rifugio, nel quale poter prendersi serenamente cura della propria rosa e dove recuperare la consapevolezza del valore unico che essa rappresenta a prescindere da qualsiasi sguardo, giudizio e dono, altri ad un senso d’inadeguatezza ed all’erronea convinzione di non aver nulla da mostrare, né dimostrare.
Nell’uno come nell’altro caso – come c’insegnerà il piccolo principe – tale esperienza è necessaria, perché solo dopo aver attraversato il deserto della nostra e dell’altrui invisibilità, potremo capirne la bellezza (il pozzo) e ritrovando l’autentica strada di casa potremo guardare il cielo e vedere le stelle sorriderci dolcemente ed impegnarci perché il visibile possa approssimarsi un po’ di più alla bellezza dell’invisibile che ci abita.
Compito questo che non va in alcun modo trascurato, né troppo a lungo rimandato perché il giorno in cui ci appiattiremo sull’evidenza e lasceremo che nulla provochi la cecità della nostra vista, le nostre mani non toccheranno altro che la superficie di un vuoto cappello, ma noi saremo fuori o dentro la pancia di un boa?
Antonella Foderaro
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“Da te, gli uomini”, disse il piccolo principe, “coltivano cinquemila rose nello stesso giardino … e non trovano quello che cercano …”
“Non lo trovano”, risposi.
“E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua”
“Certo” risposi
E il piccolo principe soggiunse:
“Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore”.
(Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe)
Donatella Quattrone
Ricordo con piacere questo tuo scritto. Quando lavoravo coi bambini, noi grandi scoprivamo la loro fantasia, il loro riuscire a vedere cose che noi non ci saremmo mai sognati. Solo chi lascia la mente aperta all’immaginazione può vedere ciò che gli altri non vedeno.
cristina bove
“Non amare, non sentirsi amati in fondo cos’è? Custodire gelosamente il proprio intimo segreto perché non venga calpestato da chi, senza esserci luce, vorrebbe solo scartarci come fa un curioso con un dono di cui non sa il valore. Nessun fiore può sbocciare senza la fiducia della terra.”
Perfetto tutto, ma permettimi di rubare questo stralcio, lo trovo straordinario.
Felicetta Correani
Bello questo quesito!!! In questi tempi dove la forma è più importante della sostanza; dove avere è più importante che essere; non fermarsi alla superficie delle cose e sforzarsi per andare oltre. Grazie 🙂
las artes
Essere amati, sentirsi amati è una radura attraverso la quale filtra la nostra bellezza, una dichiarazione di visibilità del nostro essere speciali.
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