(Immagine The Artist)
Qual è l’unità di misura del nostro tempo? Cos’è che scandisce minuti, ore e giornate del nostro vivere? Le stagioni si alternano, passando per un numero definito di cartellini timbrati, scadenze di bollette, quadrimestri. I mesi trovano coronamento con l’arrivo della busta paga, i giorni seguono il ritmo degli scatti del semaforo o della quantità di byte al secondo della nostra ADSL. Tutto ci tiene costantemente aggiornati sullo scorrere della nostra vita di lavoratori, automobilisti, fruitori di servizi, consumatori di beni e di notizie. Il nostro tempo è vivisezionato, per offrire sempre più preziosi sacrifici all’altare della produttività. L’up-to-date è il quotidiano rito di passaggio che compiamo per non perdere la marcia nell’implacabile andare della contemporaneità. Eppure, tutto questo apparente controllo del tempo, la sua gestione studiata e puntuale, fin nei minimi dei dettagli, lascia costantemente in noi la deprimente impressione di non disporre mai di tempo a sufficienza. Non abbiamo tempo, infatti, per esplorare, non tanto l’atavico bisogno filosofico di costruire un senso, attraverso il nostro percorso di vita. Ma, più semplicemente, ci manca il respiro per vivere le nostre coordinate umane. Sulla mappa dell’esistere, la nostra precaria condizione di uomini richiede un’attenzione, una cura, un’amorevolezza, che possono svilupparsi solo attraverso un incedere lento e progressivo. Una sospensione è d’obbligo. Rimanere fermi, immobili, a contemplare il filo che dall’origine ci conduce all’ignoto e che può suscitare le reazioni più varie e contrastanti: una serena contemplazione, l’audace desiderio di sapere, il terrore più paralizzante, una rabbia primitiva. Per questo, alcuni aspetti della civiltà contadina, imbastita sull’aderenza a cicli e riti primari e primordiali, che fino al secolo scorso era la tela pesante su cui si ricamava l’identità forte del nostro paese, sembravano accordarsi meglio con la delicata essenza umana. Enzo Bianchi nel suo “Ogni cosa alla sua stagione” ci racconta vissuti scanditi da “giorni degli aromi, del focolare, del presepe, della memoria”, in cui l’uomo trova, grazie anche al ritmo infallibile della natura, il tempo per guardare negli occhi sé stesso e quindi l’altro. E perfino, quando le situazioni lo impongono, per annegare liberamente nel proprio dolore. Fabio Famularo nel suo “Raccontami di Stromboli” ricorda “d’inverno, invece, rincorrevamo le onde che s’infrangevano sulla spiaggia e nel buio della sera, mentre aspettavamo che le barche rientrassero, guardavamo le stelle nel tentativo di contarne il più possibile.” Felice l’uomo che può ergere a unità di misura del proprio tempo il computo delle luci del cielo! Ieri, al termine di una lunga passeggiata, ho visto un bambino che se ne stava accovacciato sul marciapiede a osservare dei piccioni che beccavano dei tozzi di pane. Dava l’idea di non possedere alcuna percezione né di che ora fosse, né del luogo in cui si trovava. Quel momento sarebbe potuto durare un’eternità o forse un attimo, non appena fosse stato soggiogato da una percezione più significativa. Eppure, in quella deroga al tempo, quel bambino stava abbracciando l’oggetto della sua visione con un coinvolgimento totale, stava conoscendo, facendo propria, amando profondamente la vita.
Carmen Cicero