Ricordo una me bambina, forse cinque o sei anni. Gita a Pompei con i miei genitori. Dopo la visita archeologica rimango sotto choc al pensiero dell’eruzione del Vesuvio in grado di sorprendere nella notte intere famiglie, coperte di lava, rese immortali per i posteri…
Non vi nascondo lo choc di allora, e quali strategie immaginassi nella mia testa per elaborare questo dato ineluttabile che aveva a che fare con la morte, l’imprevisto e l’imprevedibilità, parole che i bambini (ma anche tanti adulti!) amano poco. In sintesi cercavo di rispondere a queste domande:“Se dovessi abbandonare la mia casa in pochi istanti cosa porterei via con me?” o in altri termini “Cosa mi fa sentire veramente a casa?”
Tra le tante strategie inventate ricordo un rituale di addormentamento. Tutte le sere dei miei sei anni, e per molti anni a seguire, disponevo una valigetta semi-rigida, rossa, molto leggera e in grado di con-tenere quegli oggetti indispensabili che mi avrebbero permesso di partire agilmente e senza troppi rimpianti. La valigetta conteneva: un pupazzetto che adoravo, le ballerine rosse (indispensabili!), un quaderno, matite colorate, un pacchetto di cracker, un succo di frutta. La valigetta era sempre pronta sul mio comodino, pronta all’uso. Col passare degli anni gli oggetti cambiarono: libri, diari, fotografie, ecc. Con l’andare del tempo, non ebbi più bisogno di agire fisicamente questo rituale, mi bastava pensare ad esso per sentirmi tranquilla, pronta a lasciare casa e a volare lontano.
La domanda però rimase. La coltivo tutt’oggi, in un certo senso è diventata una delle tematiche di ricerca della mia adultità (e del mio lavoro). Sarà per una forma di nomadismo insita nei miei geni, sarà perché mi piace viaggiare leggera, ma il tema tocca ancora corde profonde soprattutto in un periodo storico dove l’azione di “accumulare” ha più valore di quella di “sottrarre”. Vivere per sottrazione. Eliminare il superfluo che zavorra, tanto nella materialità quanto negli affetti. Recentemente lavorando in ambito formativo con alcuni operatori di una Casa Anziani ticinese ho posto la stessa domanda dei miei sei anni. Dopo lo sconcerto iniziale, i partecipanti sono stati al gioco e ne hanno capito l’implicazione. Come possono capire gli ospiti anziani che devono lasciare (quasi) tutto della loro casa per occupare una piccola stanza se prima non tentano di avviare lo stesso ragionamento su se stessi? Sappiamo bene come in un trasloco da una casa più grande a una più piccola, la potatura sia necessaria, alcune volte non basta l’accetta e neppure la discarica, desideriamo che certi oggetti finiscano nelle mani di qualcuno che amiamo o che per lo meno possano continuare a “vivere”. Questa operazione cognitiva ed emotiva non è una tappa (solo) dell’età anziana, o di chi lascia il suo Paese per cercar fortuna in un altro, è un’operazione che tocca tutti noi: è un lavoro di cura che possiamo fare fin da subito, è un modo per curare, in senso fenomenologico, la vita della mente (e del cuore).
Casa è rifugio, guscio, fonte di sicurezza. Da un punto di vista psicologico, oltrepassare la soglia di casa vuol dire entrare in se stessi, nella costruzione del proprio io. Conosciamo tutti la fiaba dei tre porcellini di Jacobs Joseph che costruiscono case via via sempre più solide e resistenti alla faccia del lupo cattivo! Da bambini – e non se ne può fare a meno in senso psicologico – abbiamo sicuramente costruito una casa, anche solo con la fantasia, sotto il tavolo della cucina, con uno scatolone, sopra un albero…creando uno spazio privato, una tana, un bozzolo, una seconda pelle. Mentre compivamo questa operazione materiale, stavamo lavorando anche sul nostro io interiore in crescita. “Casa” è infatti un ancoraggio vitale, secondo alcuni è la madre, sicuramente il nido che fisiologicamente viene costruito quando nasce un cucciolo. Scrive Anais Nin ne I figli di Albatros: “La mia casa parlerà di me. La mia casa dirà loro che sono calda e ricca. La casa dirà loro che dentro di me queste stanze di carne e di rosso lacca, verdi oceanici su cui camminare, dentro di me ci sono candele accese, fuochi vivi, ombre, spazi, porte aperte, rifugi e correnti d’aria. Dentro di me c’è il calore e il colore”.
La casa parla di noi ma Anais Nin si spinge più in là: la casa siamo noi. Possiamo dunque occuparci del nostro io interiore in tanti modi ma anche solo osservando la nostra casa, gli spazi e gli oggetti che la abitano per poi decidere cosa farne, cosa tenere, cosa lasciare, tanto nella “materia” quanto nello “spirito”.
Certe domande infantili hanno tutta la forza esistenziale di guidarci e di renderci migliori. Forse un giorno anche io batterò i tacchi delle mie scarpette come Dorothy Gale nel Mago di Oz dicendo ad alta voce: “Nessun posto è bello come casa mia!”
Barbara Sangiovanni