Uno dei principi fondamentali del liberalismo è sicuramente l’affermazione incondizionata della piena libertà dell’individuo ossia il riconoscimento che egli non debba essere soggetto -ai fini della libera espressione di sé- ad alcun vincolo che non sia collettivamente concordato. Il Soggetto (e il suo diritto all’autodeterminazione globale) è il solo principio direttivo di condotte ed orientamenti, di conseguenza la “responsabilità individuale” precede ogni forma di “responsabilità sociale”.
In altre parole ciascuno deve provvedere per se stesso per i propri bisogni, senza alcuna pretesa che altri lo facciano al posto suo. L’unica eccezione ammissibile riguarderebbe i rapporti parentali stretti, cioè il fondamentale ruolo genitoriale nella cura della prole. Oltre il limite protettivo della relazione genitori-figli, non esiste alcuna responsabilità sociale, collettiva, ma singoli individui che assumono su di sé il compito di trovare un posto nel mondo, evenienza che significa di fatto il dover trarre dal mondo –necessariamente– le risorse per la personale sopravvivenza. Il vincolo al mondo non è un vincolo ideologico ma l’aspetto più evidente della nostra collocazione in uno “stato di natura”: da una parte l’individuo mosso dalla coazione a vivere e dall’altra l’ambiente-mondo come unico ambiente da cui poter trarre le risorse per vivere. L’individuo che strumentalizza utilitaristicamente il mondo, non sta forse mettendo in atto l’imperativo biologico da cui egli stesso è agito? Sta compiendo per caso un’azione malvagia? Di certo sta secondando la sua natura coattiva e necessaria, sta traducendo in atto il proprio “programma naturale”. Tale adesione automatica alla filogenesi naturale è una caratteristica universale, un imperativo assoluto (freudianamente principio di vita o anche istinto di sopravvivenza) che non dovrebbe ammettere eccezione alcuna, per la lapalissiana ragione che la posta in gioco è la più alta possibile: la vita. Ammettere che tale regola naturale possa non valere per qualcuno, significa privarlo della possibilità radicale di provvedere a se stesso e contestualmente accettarne lo sbocco infausto della scomparsa sociale e persino della morte fisica.
Se noi ammettiamo come fondante il principio della responsabilità individuale (che significa essenzialmente riconoscimento del diritto alla vita), non possiamo non avere la giusta attenzione per le condizioni oggettive che rendono effettivi sia la responsabilità personale che il diritto alla vita, condizioni oggettive che, per l’essere umano, non si trovano né sulla luna né in alcun paradiso metafisico, ma solo ed esclusivamente nell’ ambiente-mondo. Una condizione conseguentemente necessaria diviene perciò la disponibilità del mondo per l’individuo, vale a dire quell’insieme di “oggetti pragmatici” che realizzano il vivere, come cibo, acqua, casa, terra, spazi di esistenza.
E’ l’accesso alle risorse del mondo che rende possibile l’esercizio del diritto alla vita, ed è a questo livello di accessibilità che il liberalismo incontra la sua contraddizione più devastante. Fra gli altri diritti personali, vi è il diritto alla proprietà privata, enfaticamente affermato e difeso fin dalle rivoluzioni inglesi. Proprietà privata significa non accessibilità pubblica alle risorse (da parte dei non proprietari) e, per sommazione, significa privatizzazione delle risorse e del mondo. Allora come verrebbe a conciliarsi il diritto naturale di ogni nato, con la privatizzazione del mondo? Quali sarebbero le possibilità di movimento e azione individuale in uno spazio sempre più saturato dalla proprietà a vantaggio dei micronumeri (contro una forma di espropriazione a svantaggio dei macronumeri)?
La mia non vuole essere l’ennesima critica politica al “privato” ma solo una considerazione logica, la proposta di un problema che si potrebbe porre in termini più semplici: se io devo esercitare il mio diritto alla vita in uno spazio vitale circoscritto e tale spazio è “occupato”, cosa potrei fare per vedere riconosciuto il mio diritto?
Se è vero che stato di natura e libertà individuale non prevedono alcuna responsabilità sociale, collettiva, allora non si può chiedere che lo stesso individuo invece se ne faccia carico, che si attenga alle regole sociali, cioè che rispetti l’inviolabilità della proprietà privata, la stessa che gli rende impossibile l’esercizio del diritto alla vita. Non lo si può chiedere, lo si può soltanto imporre.
Da qui consegue che la privatizzazione del mondo, andando a chiudere l’ambiente e l’accesso alle risorse, non può condurre (senza il correttivo della condivisione) che a un esito fatale possibile: Hobbes lo ha già affermato qualche secolo fa con estrema chiarezza: “bellum omnium contra omnes” (la guerra di tutti contro tutti) o, al polo opposto, la morte dell’individuo, causa l’indisponibilità del mondo (e non si tratta solo di morte fisica).
Ritenere che l’uomo moderno abbia ottimisticamente dato un calcio definitivo alla dimensione naturalistica dell’esistenza, è una pia illusione, illusione che di certo resta in piedi fino a che vi sono le condizioni di accesso al consumo di beni e risorse, ma venuta meno tale condizione, la dimensione naturalistica dell’esistenza torna a mostrarsi in tutta la sua terribile, distruttiva, annichilente drammaticità e immutabilità…(in fondo basta poco per ritrovarla tutta intera: perdere la personale fonte di reddito).
L’idea principale di questa riflessione è che, prima o poi, l’individuo deve provvedere a se stesso (responsabilità naturale ed individuale) e che in questa operazione egli si trova sincronicamente ad esercitare ciò che chiamiamo diritto alla vita e libertà personale. Tale diritto e tale libertà, se appartengono alla specie umana, sono attributi universali, diritti che per questa loro qualità universale possono ammettere la loro violabilità, solo se trattasi di violabilità condivisa universalmente: se si deve ammettere una limitazione, tale limitazione deve valere per tutti ed è logicamente inconcepibile, umanamente inconcepibile che il diritto alla salvaguardia della privatizzazione del mondo abbia una prevalenza sul più radicale ed intrattabile diritto alla vita. Solo il “disumano” può ammettere l’idea di un mondo privatizzato, il disumano o una logica fondamentalmente selvaggia e “darwinistica” che non può dolersi se infine esplode una sorta di via alla “guerra di tutti contro tutti”, e per la semplice ragione che al di fuori di un’antropologia nel segno della condivisione, si continua a permanere in uno stato di natura in cui ciascuno è predatore e preda al tempo stesso. Un’etica fondata sul principio della destinazione universale dei beni della Terra crea le condizioni per l’esercizio pratico del diritto individuale alla vita, la privatizzazione del mondo mette invece Individui e Popoli al cospetto del niente e della morte. Niente e Morte, due “bombe” storiche sempre innescate. Farle esplodere rivela sempre l’insipienza di Cesare…
Francesco Palmieri
Molto stringente e stimolante questa analisi con la quale concordo pienamente, mi sembra che l’attuale devastante prevalenza sul piano mondiale di una logica apparentemente vetero-liberista sta producendo proprio quella guerra di tutti contro tutti quell’homo homini lupus cui si riferiva Hobbes traendone come conseguenza l’idea della necessità di un potere assoluto .Mi sembra di vedere oggi tanti tragici segnali di crisi dell’idea stessa di democrazia e di libertà politica ,mentre i movimenti che pure si agitano in tante parti del mondo o sono frange minoritarie costrette a ripetere in forme apparentemente nuove le stesse lotte che si conducevano contro il potere assoluto nei secoli passati o rischiano di cadere nelle trappole di partiti a sfondo religioso ,annullando ogni potenzialità rivoluzionaria che pur potevano esprimere.