C’era una volta, nel Regno dell’(Im)possibile, un principe speciale. Come tutti i principi era bello, alto, elegante, splendente nei suoi lunghi riccioli d’oro. A guardarlo bene, c’era però qualcosa nel suo aspetto che lo distingueva da tutti gli altri principi e che ne rivelava lo straordinario destino.
I trasparenti occhi, a cui il cielo aveva donato i suoi riflessi di perla, il naso lievemente aquilino, il fisico asciutto e dinamico, quella sua aerea solennità, nel loro insieme, rivelavano la forma unica di cui la natura o chissà il fato o forse le divinità l’avevano dotato.. Aveva il cuore piumato Angelo. Sì, Angelo era il suo nome, così uguale alla sua straordinaria sorte di aspirare al volo ben oltre i confini umani. Gli erano spuntate, chissà quando e chissà come, ai lati del suo rosso muscolo pulsante, due piccole e tenere ali. E solo un occhio veramente disattento non avrebbe percepito che prima o poi quel cuore alato avrebbe preso la strada del sole e delle nuvole.
Sembrano una favola la vita e la morte di Angelo D’Arrigo, l’uomo che, in volo libero e col suo deltaplano a motore, ha sorvolato il mondo, proprio come un uccello.
L’Etna in piena eruzione, il Sahara, la Siberia, l’Everest: i più grandi monumenti della terra lui li ha dominati con lo sguardo dal cielo, con il quale si è fuso, in un totale, audacissimo abbraccio..
E così, piano piano, è diventato naturale per lui avvicinarsi ad altri esseri viventi naturalmente equipaggiati per l’avventura del cielo: aquile delle Alpi, rapaci Himalayani, avvoltoi dell’America Latina e Australiani sono diventati per questo no-limits man compagni da osservare e imitare. Intuizione, studio, sperimentazione, tecnica e ostinazione: sulle orme di Leonardo, Angelo ha perseguito con inesausta passione il sogno, antico quanto l’uomo, di padroneggiare l’aria. E proprio antico, avvolto nel Mito, appare quel disegno, seppur costruito su kevlar, carbonio, dacron, alluminio, ergal, le modernissime fibre usate per la costruzione dei velivoli odierni. Perché fatto di leggerezza e di braccia spalancate all’incontro con la natura, senza remore, senza esitazioni, perché mosso da una indomabile, sconfinata curiosità e dalla volontà di ricostituire un’armonia, un’unicità originaria. Se ormai appare difficile individuare il numero di satelliti che quotidianamente scrutano la Terra e gli altri pianeti, se il cielo è oggi un’affollata autostrada per il traffico aereo che incessantemente lo attraversa, è però vero, che ben poco si trasmette all’uomo dell’essenza della natura, attraverso questi incostanti contatti metallici. Conduciamo sicuri le nostre vite dentro solide recinzioni di cemento armato o mobili contenitori superaccessoriati. Eppure sappiamo dalle calamità naturali che le nostre certezze strutturali crollano istantaneamente davanti alla forza inarrestabile della natura. Ma c’è molto più: quelle scatole ben incasellate, ci stanno allontanando da un dialogo determinante, quello con la natura, che è anche quello con noi stessi e con il ciclo di vita e morte, quindi con l’Eternità. C’è, dentro l’eterno svolgersi degli elementi della natura, un fluire continuo e incessante di voci che ci parlano della nostra verità più profonda. E noi lo respingiamo. Del resto, l’epoca che forse più di ogni altra teme il silenzio, tende a scindere dall’uomo tutto ciò che gli parla dell’uomo. La favola di Angelo D’Arrigo termina con la perfetta conclusione del cerchio. In volo libero si spegne quel destino d’uomo: l’aria che lo aveva ospitato, cullato, sospinto, raccoglie anche il suo ultimo respiro. Eppure quel suo viaggio senza confini sembra davvero non dovere aver fine. E qui entra in gioco un altro di quei voli illimitati, con cui la vita può sorprenderci: l’incontro tra due anime.
La moglie di Angelo, che è stata incantata dalla sua peculiare avventura umana, lo ha seguito nelle sue spettacolari spedizioni, fino all’ultima, forse la più straordinaria: volare sul Machu Pichu assieme a due condor allevati dalla stessa famiglia D’Arrigo, liberandoli nel loro habitat. Quel progetto, che Angelo aveva tenacemente sognato nel suo cuore piumato e che si poteva osservare già in parte riflesso nei suoi occhi di cielo, non si è spento con la sua vita. Ma si è concluso felicemente, grazie all’ostinazione della moglie Laura. Il 21 luglio 2006, per mezzo delle potenti ali del suo amore per il marito, Inca e Maya, i condor cui Angelo D’Arrigo aveva insegnato a volare sotto le ali del suo deltaplano, hanno volato nel loro cielo d’origine. Non sappiamo quando un nuovo Angelo nascerà e se più in alto saprà volare. Eppure, guardando certe traiettorie, così limpide e sicure, la strada appare così chiara, per noi tutti. Viltà, bruttezza, disamore, cadono sbeffeggiati, sotto i colpi d’ala di rapace di coraggio, ardore e vita.
Carmen Cicero