
Umberto Boccioni – Costruzione spiralica (1914) – Museo del Novecento, Milano
“Scartando ora tutte le stupide definizioni e tutti i confusi verbalismi dei professori, io vi dichiaro che il lirismo è la facoltà rarissima di inebriarsi della vita e di inebriarsi di noi stessi. La facoltà di cambiare in vino l’acqua torbida della vita che ci avvolge ed attraversa. La facoltà di colorare il mondo coi colori specialissimi del nostro io mutevole” F.T. Marinetti, Zang Tumb Tum 1914.
Inebriarsi della vita è un compito più difficile che inebriarsi di noi stessi?
Come diceva Italo Svevo, forse è più comodo ”credersi grande di una grandezza latente” per far fronte all’acqua torbida che ci avvolge ed attraversa.
Ma questo la cambierà in vino?
Fingere che l’acqua non sia torbida, ci spinge solo dentro un circolo vizioso di finzioni ed illusioni, dal quale diventa difficile uscire.
Inebriarci di noi stessi e della vita significa piuttosto amarci ed amarla così com’è senza arrenderci alla rassegnazione che nulla possa cambiare. Questo ci permette “di colorare il mondo coi colori specialissimi del nostro io mutevole”.
L’”io” non è un marchio che riceviamo dalla nascita, ma al contrario, qualcosa che costruiamo giorno dopo giorno, attraverso le nostre esperienze, scelte, passioni, attraverso lo studio, le letture, i sogni e le speranze che coltiviamo.
Il lirismo, secondo Marinetti, consiste proprio in questa “facoltà rarissima di inebriarsi della vita e di inebriarsi di noi stessi”. Il poeta allora non è un architetto delle parole, ma un demiurgo, che plasma la realtà attraverso la propria, originale ed unica, capacità di mescolare, fondere e dare forma e colore.
La parola può dirsi lirica se capace di operare questa metamorfosi dentro e fuori di sé. Il linguaggio farcito di retorica incapace di veicolare contenuti ed hastags come carte di caramelle, invoca su di sé uno sguardo lirico, che non sia denuncia priva d’impegno, lotta senza ideale, grido incapace di diventare canto. “Ci sono cose che solo la letteratura può dare” – direbbe Calvino – una di esse, in verità la prima è, appunto, la “leggerezza”, cioè quella capacità di essere allo stesso tempo, dentro e fuori la realtà, tanto dentro da capirla e sentirne il “peso” della responsabilità, abbastanza fuori da poterla restituire allo sguardo di tutti cambiata in vino.
E che cosa simbolizza il vino se non la gioia della condivisione?
Non dimentichiamo infatti che chi beve da solo viene comunemente identificato come il povero ubriaco, mentre chi offrire da bere è da sempre il protagonista della festa.
La dichiarazione di Marinetti non è solo un invito ad inebriarsi, ma a condividire, a non rimanere passivi, a non arrendersi all’acqua torbida, a credere che offrendo possiamo comunicare la gioia del cambiamento.
Antonella Foderaro