La vita umana è scandita dall’altalenante movimento della volontà le cui fauci insaziabili non possono mai esser paghe. Sotto questo sole che “brucia in un eterno mezzogiorno” si stende il deserto le cui dune, mobili come nuvole, velano e svelano all’occhio un orizzonte di senso in cui il miraggio della felicità cede il passo al dolore. L’inappagabile brama genera solitudine, inadeguatezza, tedio e tristezza per l’inesorabilità di un destino che a volte pare crudele, più spesso indifferente e beffardo.
Nell’amara consapevolezza che “Arcano è tutto fuor che il nostro dolor” ed il “piacer” è “figlio d’affanno” e la felicità dura quanto ali di farfalla tra le dita, ci rassegniamo a condurre una non-esistenza mortificando in una sorta di salvifico nirvana ogni volontà ed umana aspirazione. Può l’uomo liberarsi da questo tormentato destino?
Allo stesso modo in cui Leopardi fu “interprete” poetico di Schopenhauer, De Chirico lo sarà di entrambi e principalmente di Nietzsche nelle arti figurative.
Secondo Schopenhauer l’io individuale è succube della volontà fintanto che non riesce a raggiungere l’idea della stessa completamente oggettivata. Ciò è possibile grazie all’arte che rappresenta il mondo della cosa in sé, cioè la volontà, nei suoi diversi gradi: dal mondo inorganico, a quello organico, a quello infine della volontà umana.
Nella sua classificazione delle arti il filosofo parte dal gradino inferiore (corrispondente al mondo inorganico) cioè l’architettura, per passare poi alla scultura, alla pittura, alla letteratura (divisa anch’essa in epos, romanzo, dramma), alla lirica ed infine alla tragedia, grazie alla quale l’uomo muoverebbe il primo passo verso la rinuncia alla volontà di vita poiché in essa la vita stessa gli si mostrerebbe quale realmente è: “un difficile sogno da cui dobbiamo svegliarci”.
Totalmente immersa in questo “difficile” sogno, la pittura di De Chirico si presenta come un distillato di nostalgie e memorie macerate lentamente dalla solitudine e dallo spaesamento le cui radici affondano nell’eccezionalità di una biografia nomade, scandita dai continui spostamenti e dalla costante ricerca della gloria e pertanto inevitabilmente segnata dalla tragedia (come oracolarmente si legge nell’autoritratto con busto di Euripide degli anni venti). Questo senso di lacerante solitudine è evidente anche nei suoi scritti:
“La pietà di Ebdòmero andava verso l’intera umanità; verso l’uomo loquace e verso il taciturno, verso il ricco che soffre e verso il povero che odia, ma la pietà più profonda, la pietà più grande, egli la provava per l’uomo che mangia solo in un ristorante di seconda categoria. Specialmente quando egli è seduto vicino alla finestra, in modo che i passanti, crudeli ed irriverenti, veri fantasmi viventi in un’altra atmosfera, possono insozzare con il loro sguardo impudico la verginale purezza, la tenera castità, l’infinita tenerezza, l’ineffabile malinconia di quel momento vissuto dal mangiatore solitario, momento profondo fra tutti e che lo copre d’una vergogna così dolce e commovente, che non si capisce come tutto il personale del locale, col padrone e la cassiera, ed i camerieri coi mobili, le tovaglie, le bottiglie e tutto il vasellame, sino alle saliere ed agli oggetti più minuti, non si dissolvano in un torrente infinito di pianto”1[i].
Inequivocabilmente presente in tutte le sue opere:
Un velo di tristezza avvolge il paesaggio greco autunnale: il vento inclina le cime dei pini condannandoli ad un’eterna tempesta (in contrasto con la placidità del mare nella baia) come la nostalgia/malinconia attanaglierà per sempre il cuore del pittore che negli Argonauti ritrae se stesso nell’atto di abbandonare il noto per l’ignoto, la patria nativa (rappresentata dal nume tutelare cui vengono offerti i sacrifici propiziatori per un viaggio sicuro) calda e rassicurante per un paese straniero freddo ed inquietante. Questo dipinto segna l’incipit del viaggio che condurrà De Chirico, come un novello Ulisse, ad approdare attraversando l’oscuro mare degli enigmi oracolari, nel porto “sicuro” della poetica della metafisica, poetica sulla quale stabilirà il suo equilibrio umano prima che artistico e che per lui rappresenterà il ritrovamento della dimora perduta, non però la fine/il fine del viaggio.
Infatti se: “Il desiderio metafisico non aspira al ritorno, perché è il desiderio di un paese nel quale non siamo mai nati. Di un paese straniero ad ogni natura, che non è stato la nostra patria e nel quale non ci trasferiremo mai”2 allora il semplice spostamento fisico non può esaurire il senso del cammino, né potrà farlo la meta in quanto “straniera ad ogni natura”, ma sarà paradossalmente la partenza della quale si sconosce tutto fuorché la stessa necessità, a definirne la fisionomia, senza ancora esaurirne il senso.
Rimanendo immobili ad osservare sulla riva la nave che prende il largo saremo costretti ad una visione parziale del viaggio, indifferenti alla passione ed alla tragedia non condivideremo nulla delle ansie, delle aspettative, dell’imprevisto e della bellezza che si rivela allo sguardo del navigante. Sarà come guardare un quadro appeso alla parete che ritrae un uomo in mare che combatte con i flutti, la porta aperta … la soglia mai varcata.
“mio padre era un arameo errante” Dt 26,5
Questo è l’inizio di un racconto e non la formulazione di un sistema filosofico ed è proprio per questa sua caratteristica che è possibile ascoltarne la narrazione e capirne il senso mentre si è in viaggio, non necessariamente nella posizione del pensatore: reclinati su se stessi, soli.
Si tratta, nel suo contesto originale, di una professione di fede, ma qui ne daremo una lettura diversa: l’arameo è il viandante, colui che ha come unica “proprietà” la strada, conosce la terra dalla quale è partito ma non quella verso la quale cammina, pieno di attese sa attendere e nella fatica coltiva la passione e la speranza per quello che ancora deve vedere.
Non ha fretta di arrivare e quindi ha il tempo di soffermarsi, è soggetto a smarrirsi, ma non teme di perdersi, sa che la sua compagna è la strada e che essa lo condurrà all’incontro.
“Essere umani significa essere in cammino … la vita umana rappresenta un punto d’incontro tra la mente ed il mistero”3 questo non significa solo avere qualcosa da fare, cioè il semplice camminare, ma essere in quel qualcosa, essere in cammino è lasciare aperta la domanda e renderla sempre più appropriata ad ogni passo, senza avere fretta di trovare la risposta perché essa stessa è in viaggio verso di noi.
In questo dipinto De Chirico riesce magistralmente ad incrociare più prospettive: lo sguardo dello spettatore immobile (restituitoci dalla prospettiva della finestra che ci consente lo sguardo nella stanza) s’incrocia con quello di Ulisse solo nell’imbarcazione, entrambi vengono “ascoltati” e nuovamente raccontati dal viandante (lo stesso De Chirico).
“I desideri che possono essere soddisfatti assomigliano al desiderio metafisico solo nelle delusioni della soddisfazione o nell’esasperazione della non-soddisfazione e del desiderio, che costituisce la voluttà stessa. Il desiderio metafisico ha un’altra intenzione – desidera ciò che sta al di là di tutto quello che può semplicemente completarlo. E’ come la bontà – il Desiderato non lo riempie, ma lo svuota”4.
Attraverso questo nuovo “racconto pittorico” avviene una mediazione: Ulisse non è più – come vorrebbe Lévinas – la figura del “ritorno” a casa che si contrappone a quella di Abramo, uomo della partenza senza ritorno destinato ad una patria vissuta come “promessa”, non è più il precursore di Colombo, l’uomo che smarrito il senso della dimora è figura della volontà di potenza di una conoscenza senza freni, ma un altro uomo la cui storia ricomincia come una nuova partenza (inizio) che pur non dimentica delle figure del passato, sarà tuttavia personale perché sulle labbra, nell’inchiostro, nei colori, nello sguardo, nei passi e nell’orizzonte, nel sentire e pensare di un altro.
La malinconia viene allora ri-vissuta e rielaborata in modo filosofico: il mondo ci pone di fronte all’apparente non senso della vita, all’enigma (qui rafforzato dalla duplice presenza dell’elemento sipario-tenda), per risolverlo dobbiamo reagire poeticamente, cioè creativamente, come De Chirico stesso affermerà di aver appreso direttamente dalla lettura di Schopenhauer e Nietzsche.
L’uomo di fronte al mistero della vita/sofferenza può lanciare il suo sguardo verso l’orizzonte, trascendendo il vuoto e la solitudine che lo circonda nella volontà audace di svelare il senso dell’enigma e coglierne l’essenza. E’ un viaggio spazio temporale che attraversa cose ed eventi per tornare con un senso nuovamente recuperato al punto di partenza: la domanda.
De Chirico non cercherà nella sua pittura “metafisica” di svelare o cogliere la cosa in sé, il senso profondo delle cose scaturisce – un po’ come il vero valore di un uomo – quando esse vengono dis-locate, poste fuori dal contesto originario, gettate altrove, elevate di rango, trasformate da oggetti comuni a segni. L’enigma non può né deve essere risolto, può essere però raccontato attraverso il mito che nascondendo evoca e rivelando adombra, può essere coraggiosamente fissato nel fermo immagine di una tela, mai spiegato, per consentire ancora una volta a ciascuno il proprio viaggio.
Apparso per la prima volta nel dipinto La nostalgia del poeta del 1914, il manichino diventerà protagonista inquietante delle tele di De Chirico. Senza braccia, senza bocca, senza occhi: cieco come Omero, Tiresia, Edipo. L’occhio metafisico è l’unico elemento che ne trasforma l’inumanità nella super-umanità nietzschiana.
“Solo alla fine della conoscenza di tutte le cose l’uomo avrà conosciuto se stesso. Giacché le cose sono solo i limiti dell’uomo”5. Non vederle (cecità) o meglio avere uno sguardo capace di superarle è forse una possibilità di riappropriarsene diversamente, di ricomporle, come in un gioco, dopo averle smontate nel tentativo di penetrarne i segreti. Questo viaggio tra le cose ci consentirebbe di conoscere o riconoscere la nostra identità e differenza e di apprezzare insieme alla tragicità dell’esistenza anche la sua durevole ed effimera bellezza ed esserne simbolo e presagio. Se l’occhio dell’artista perdesse la capacità di mediare e non fosse più capace di varcare la soglia del già detto non esisterebbe più quel ponte che ancora ci consente di oltrepassare l’abisso che intercorre tra pensiero e realtà, tra fisica e metafisica e ci perderemmo forse naufraghi e soli nel mare agitato delle nostre meravigliose aspirazioni tra le sconfortanti pareti di una stanza, abili a comprendere il mondo ma incapaci di vivere ed abitarci poeticamente. Se non esistesse la terra ed il mare da dove potremmo guardare le stelle? Se non fossimo in grado di volare come restituire la giusta misura alle cose? Viaggiare è forse un poco questa capacità creativa di custodire quel pudore che non ci permette di concederci mai del tutto e per intero ad un “luogo”:
“l’uomo è un viandante, si muove sempre o verso l’alto o verso il basso; non può rimanere in un solo posto. Di più! L’uomo non è solo il coronamento della creazione, può diventare partecipe dell’atto della creazione”6.
Antonella Foderaro
Bibliografia di riferimento e note
[i]1 Gioia Mori, De Chirico metafisico, in Art Dossier, Giunti, Milano 2007, p. 8
2 – 4 E. Lévinas, Totalità ed infinito, Jaca Book, Milano 1996, p. 32
3 H. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Roma 1983, p. 379
5 Nietzsche, Aurora, in Opere 1870/1881 edizioni integrali collana I Mammut, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 1993 p. 921
6 H. J. Heschel, La terra è del Signore, Marietti, Milano 1989, p. 89