Era una mattina di novembre. Un inizio di giornata come tanti. Ines si era svegliata presto, anche se non doveva andare a lavorare. Seduta in cucina, consumava il suo latte macchiato, nel quale di tanto in tanto intingeva un biscotto integrale. Aveva acceso la tv come al solito. E come al solito non ascoltava nemmeno una parola che l’aggeggio emetteva. Le serviva però, perché quella voce straniera, riecheggiando nella stanza in cui era sola, le donava l’illusione di essere in compagnia.
Si era alzata pigramente, aveva appoggiato la tazza nel lavello vuoto e riposto i biscotti avanzati in una credenza di legno chiaro, accanto ad altri pacchi di dolci disposti in modo ordinato sul ripiano. Chiusa l’anta con delicatezza, si era poi spostata per andare in bagno, lasciando il televisore acceso.
Non aveva voglia di lavarsi. Si sentiva stanca ancor prima di iniziare, eppure era necessario come ogni gesto che nel tempo ripeteva in maniera ormai meccanica.
Lo scroscio dell’acqua tiepida sulla pelle non le aveva trasmesso nemmeno un brivido. Assorta nei suoi pensieri, si lasciava lavare come se il corpo non fosse il suo. Non sentiva nient’altro che il rumore lontano di quella piccola cascata senza però trarne beneficio.
Ines era una donna sulla quarantina. Di statura media. Il peso, ben distribuito, la rendeva attraente. Ma quel che attirava maggiormente era lo sguardo. Occhi verdi, da gatta, che comunicavano più delle parole.
Era cresciuta in una famiglia che l’aveva educata ad attenersi scrupolosamente alle norme del buon costume, quelle che rendono “persone perbene”. Si studia, si diventa amici di gente dello stesso “livello”. Si cerca un’occupazione. Ci si sposa con l’uomo “adatto”. Si diventa genitore. Il tutto senza preoccuparsi di ascoltare il sentire del proprio cuore. Senza mai interrogarsi se ciò che è giusto per gli altri sia giusto anche per sé. E quando si vive a contatto con chi dice di volerti bene e ti parla “a fin di bene”, si finisce per convincersi che ti vogliano davvero bene e che quello sia il tuo bene.
Sin da bambina aveva atteso il principe. In sella alla sua bicicletta rossa, mentre il vento le accarezzava i lunghi capelli sempre spettinati, raggiungeva un cancello, rigorosamente chiuso, che delimitava il giardino della sua casa e lì si fermava. Si sollevava leggermente e con il viso appoggiato alle grate sbirciava la strada spesso deserta. Attendeva un po’, sperando di vederlo sopraggiungere, ma non succedeva mai niente di nuovo, quindi faceva ritorno per poi ritentare il giorno dopo.
Intanto il tempo passava. Era diventata adulta, aveva studiato. Si era laureata. E finalmente aveva conosciuto un ragazzo che piaceva tanto alla sua famiglia e di conseguenza anche a lei. Non perché se lo fosse mai domandato. Era di certo così, sulla base del principio che “chi ti vuol bene non può non volere che il tuo bene ed ha il diritto di decidere per te”, annullando la tua capacità di scegliere, sottomettendo la tua voglia di pensare, dire, provare. Non si era espressa. Nessun giudizio. Aveva accettato e non c’era stato bisogno di scendere a compromessi.
Il fidanzamento era durato il tempo necessario per illudersi di amarsi e maturare la convinzione che il passo successivo e necessario sarebbe stato il matrimonio. Un’unione finalizzata soltanto alla procreazione. Al miracolo della nascita di altri esseri. Tante altre “brave persone” per continuare la serie senza fine.
Il matrimonio c’era stato. Organizzato dai parenti stretti delle rispettive famiglie. Scelta della chiesa, degli addobbi floreali per la chiesa, del ristorante, del menu, degli invitati e degli abiti. Era perfetto!
Il lancio del bouquet e la distribuzione delle bomboniere agli ospiti sazi e con le caviglie gonfie per le scarpe vergini avevano sancito la fine del lauto pranzo e l’inizio della vita “nuova”, in una casa nuova, arredata con mobili nuovi e abbellita con i vari regali ricevuti per l’occasione.
Andrea, lo sposo, era laborioso e metodico. La precisione e la cura per i suoi affari lo rendevano unico. Le giornate incominciavano e si concludevano sempre nello stesso modo, contrassegnate dalle solite, urgenti, utili attività. Più che un essere umano, Andrea pareva un automa. Efficiente come una macchina. Calcolatore, razionale, egocentrico, ma insensibile rispetto alle necessità della moglie, che chiedeva attenzione, ma si sentiva rispondere: ” Un attimo…”. L’attimo passava, gli attimi passavano e con essi lentamente il tempo dei giorni, tanto che pian piano lei aveva abbassato le aspettative, fino ad azzerarle per non soffrire.
La loro vita di coppia non era fatta di condivisione, collaborazione, confronto. L’apparente apertura non permetteva il dialogo perché, quando Ines parlava, lui era sempre distratto dai propri pensieri, le preoccupazioni legate alle sue responsabilità. “Cosa succede? Novità? Tutto bene?… “.Erano queste le domande che lei spesso si sentiva porre. E la risposta era sempre la stessa. – Come al solito…niente di nuovo…si procede normalmente. Ma qual era il significato di quelle parole? Quanto importava in realtà chiedere e quanto raccontare? E se ci fosse stata sincerità in quella richiesta, qual era l’aspettativa e quali il motivo e il fine? Si domandava per un proprio bisogno o per dimostrarle vicinanza, interesse per la sua esistenza e per tutto quanto la caratterizzava? Nel rispondere”normalmente”, che cosa si intendeva e cosa veniva recepito? Chi ascoltava si accontentava? Com-prendeva? Riteneva appieno la realtà di chi parlava?
Erano tanti i discorsi, molte le conversazioni, innumerevoli le parole che nascevano. Elargendole, spesso per educazione o abitudine, in apparenza accendevano lo scambio tra le parti, in realtà lo privavano di significato perché povere di vita. Interrompevano il silenzio senza accorciare le distanze. Esse non donavano presenza, ma solo rumore, un suono di sillabe muto che non arricchiva nessuno. Così restavano nell’aria, sospese, senza incontrarsi, unirsi, amarsi. Rimanevano separate da una barriera che impediva di sentirne il richiamo, le une di qua e le altre di là simili a uccellini a cui è impedito il volo perché costretti a rimanere in uno spazio ristretto che dona solo l’illusione di libertà.
I due erano sotto lo stesso tetto, l’uno con l’altra, ma questo non equivaleva ad essere insieme l’uno per l’altra. E’ l’amore che lega in maniera complementare senza alcun contratto. E’ l’amore che muove verso l’amato. Amare significa “prendersi cura” dell’altro, preoccuparsi di “proteggerlo dai fantasmi”. Non farlo mai sentire inadeguato. Non farlo mai sentire solo. Tra loro non c’era amore. Non c’era mai stato!
Ines desiderava una vita che permettesse di farsi condurre dal cuore, non dalle gambe e nemmeno dalla testa. Una vita fatta di poche, semplici cose che dessero serenità. Una vita che offrisse gioia colorando di luce gli attimi presenti e donando calore alla solitudine. Voleva dei giorni pieni di tempo per guardare sorgere e tramontare il sole o soltanto per restare seduta in riva al mare ad ascoltarne il canto. Le sarebbe piaciuto andare in un prato e accarezzare petali e corolle, foglie e steli e camminare a piedi nudi per sentire il contatto con la madre terra e poi chiudere gli occhi per scorgere l’essenziale, la bellezza che resta nascosta dietro ad un involucro freddo e inutile che si costruisce pensando di stare meglio. Aspirava a vivere la tenerezza, figlia e genitrice di sensibilità, quella tenerezza che non dovrebbe scomparire mai dall’esistere e che invece aveva lasciato il posto al dover fare per essere.
Erano questi i pensieri nella testa di Ines, compagni fedeli nell’alternarsi delle stagioni. Era evidente che non era quello il suo mondo. Non era Andrea il suo principe. Non era quella casa il suo regno. E non era la vera Ines quella che appariva come gli altri si aspettavano fosse.
L’acqua scendeva, detergeva quel corpo pulito, portando con sé la pigrizia, l’assuefazione, il ristagno delle emozioni. Ad un tratto si rivide bambina, in sella alla sua bici, davanti al cancello che la costringeva a restare in uno spazio ristretto, non voluto, non gradito perché imposto. Comprese che il fine dell’esistere è volersi bene, ma soprattutto essere in armonia con se stessi. Apparire diversi da quello che si è per timore del giudizio non rende liberi. Lei non era libera.
Girò la manopola e il rubinetto cessò la sua funzione. Si asciugò. Si vestì senza prestare attenzione a quel che indossava. Era felice. Per la prima volta era pervasa da una sensazione diversa perché autentica. Aveva capito che era necessario rimettersi in gioco per scegliere come agire secondo i dettami del cuore. E poter decidere rende liberi di essere.
Aprì la porta, la stessa che aveva aperto e richiuso mille volte. Non prese le chiavi. La richiuse alle sue spalle e, senza nemmeno voltarsi, se ne andò. Sul pianerottolo riecheggiava l’audio distante del televisore rimasto acceso, unica parvenza di vita all’interno di quella casa.
Maria Lucia Tarantino
Eletta Senso
La voce del marito è troppo simile alla voce fuori campo dell’apparecchio televisivo: insignificante rumore di sottofondo che non comunica nulla. Perché ci sia comunicazione deve esserci comunione di anime. Fatto raro di poche affinità elettive. Se uno più uno non fa tre, come meravigliosamente errando accade nella coppia che vive il Pathos e Eros , conviene scegliere la solitudine dell’uno. Meglio colloquiare con se stessi che fingere di parlare e dialogare con un fantasma. Nulla di peggiore che diventare trasparenti all’altro. Chiudere la porta e andarsene, allora, è davvero una scelta radicale e ” nuova “.
Complimenti per il racconto così vero e simile a tante esperienze mute.