(Immagine Jennifer Lawrence)
Sofia era una donna un po’ in là con l’età. Appariva ricca di vita anche se la vita con lei non era stata clemente. Procedeva a passo cadenzato lungo la strada, tirando uno sgangherato carrello della spesa, alleggerito dal vuoto dell’interno. Pareva una persona priva di sogni, abbandonato l’entusiasmo, perso ogni bene, relegata ogni aspettativa in un passato ormai remoto. Intorno il sordo frastuono del veloce, frenetico e indifferente andare della gente nel groviglio delle vie del centro.
Il volto segnato dalla privazione e dalla solitudine, si muoveva senza una meta precisa. Ogni tanto rallentava la sua flemmatica corsa per rovistare tra le buste del rifiuto di altri e ne estraeva qualcosa per lei utile. Lo osservava, lo toccava, lo annusava e poi lo riponeva con cura nel carrello.
Sembra incredibile, ma lo stesso oggetto può assumere connotazioni diverse a seconda di chi lo giudichi. Così il valore della cosa dipende dalla misura di soddisfare un bisogno primario. Di conseguenza niente è inutile e insignificante. Un cartone, ad esempio, non è soltanto un pezzo di carta spessa né solo un possibile contenitore. Può diventare una coperta, rappresentare un giaciglio o un piccolo rifugio in un angolo dimenticato della città. Una nicchia che doni la sensazione di un riparo, che permetta di creare una parete nell’illusione di avere una casa dove aspettare che nasca il giorno.
E tra i vari oggetti rinvenuti e analizzati con la stessa perizia di un archeologo che ridona luce al reperto e se ne rallegra, Sofia aveva scoperto un cartone pulito appoggiato sulla fredda superficie di un cassone. Lo aveva guardato, accarezzato e adagiato sul carrello tra la copertura e un elastico liso che però ancora serviva a tenere. E con quel prezioso carico avanzava tra esseri umani intenti a comprare ogni genere di merce, in mostra dietro le vetrine dei tanti negozi allineati sul marciapiede.
Aveva infine raggiunto la sua dimora improvvisata, seminascosta e al riparo da sguardi indiscreti, dove aveva aggiunto il suo cartone agli altri già esistenti a formare quella parvenza di abitazione. Si era distesa su un fianco, pronta a consumare un pezzo di pane che aveva prima odorato come tutto ciò che toccava.
Da quella postazione poteva guardare un tratto del suo percorso consueto, il microcosmo quotidiano fatto dei soliti gesti con cui voleva dare senso al giorno ma soprattutto significato all’esistere. Ed ogni volta le pareva diverso perché coglieva un particolare fino ad allora ignorato che lo arricchiva e lo trasformava. In questo modo si convinceva che la via, quella via, non fosse la stessa proprio come succede alle acque di un fiume che si rinnovano di continuo e il familiare, riscoperto, costituiva la premessa di una nuova esperienza.
Percepiva il procedere lungo la strada come il modo migliore per lasciarvi impresse le orme, segno segreto del suo passaggio nel viaggio di andata. Le ritrovava poi al ritorno ormai unite a tante altre senza riuscire più a distinguerle. Ma a lei interessava saperle lì in quanto traccia indelebile di vita e di presenza.
La sua vita era cambiata da quando stava nella casa di cartone, dal tetto appena accennato che le permetteva di contemplare le stelle. E con quell’immagine davanti agli occhi stanchi si addormentava, cullata dalla ninna-nanna del vento e si risvegliava, scaldata a volte dal calore del sole. Nel cielo si specchiava, si perdeva e si ritrovava. Naufragava dolcemente e rinasceva costantemente. Amava scrutare il volo degli uccelli. Le regalavano la leggerezza. Le donavano la spensieratezza di quando era bambina e giocava sull’altalena libera e felice. Allora il suo cuore sorrideva, mentre una lacrima scendeva sul suo viso rugoso. La ritrovava sul muro di cartone, stilla di gioia e di nostalgia. La sfiorava con un dito e la vedeva volare via, spersa nell’aria con gli uccelli e con la sua allegria.
Per la strada incrociava ogni giorno individui privi di personalità, copia imperfetta di prototipi studiati per piacere. Osservava maschere su volti vuoti, preoccupati solo di apparire, asserviti al timore del giudizio. Davanti a sguardi ciechi vedeva scorrere le luci alle quali si alternavano infinite le tinte, ma ogni cosa veniva percepita monocromatica, informe e opaca da chi si adoperava solo ad andare. Il tutto diventava niente per chi guardava alla meta senza accorgersi dei vari aspetti della realtà circostante.
Notava che molte persone non avevano il tempo di scorgere con occhi attenti. Non il tempo di ascoltare i suoni della vita perché, nell’ intento di arrivare, si proteggevano dal contesto, schermate da un flebile frastuono. Così, seguendo il ritmo della massa, avanzavano, fiume in piena in un letto di fragile solidità. Asfalto freddo, grigio tappeto su cui ognuno perdeva il valore delle ore, il valore di sé.
Era lì che trascorrevano il giorno. Sulla via. Lì la ragione dell’ esistere, eppure non riuscivano a cogliere il contorno. Si muovevano incapaci di ritenere le sfumature, i particolari, i piccoli dettagli che rendono pienezza al mondo.
Sofia ne percepiva l’infelicità. Sentiva l’insoddisfazione di quelle persone che credevano ingenuamente di poterla colmare alla fine del percorso. Le sembravano piccole foglie spinte dai venti, mentre avevano bisogno di essere vento. Un vento che soffia forte tra i rami degli alberi e solleva alte le onde del mare. Un vento che urta contro la scogliera e le pendici delle montagne per poi rinfrescare ma anche scaldare.
Lei viveva tra le pareti di cartone. Lei oltrepassava la strada. Lei era ricca.
Maria Lucia Tarantino