(Immagine La banda degli Onesti)
Di ciò che siamo, fattori ereditari ed eventuale credo a parte, possiamo ben dire di non dover ringraziare, né maledire alcuno, non altrettanto ci si può vantare di ciò che diventiamo in società.
Sempre più spesso ci pieghiamo alla sottile quanto volgare logica della politica delle alleanze che come ben sappiamo si muove agli antipodi dell’universo kantiano del considerare l’uomo sempre come fine e mai come mezzo, ma la filosofia in fondo è un po’ come la giurisprudenza, serve a trovare l’inganno, una volta che si sia riconosciuta la legge e quell’uguale responsabilità che tanto meno ci è gradita quanto più ci vede chiamati in causa. Per carità, bisogna essere realisti, il mondo è del più forte, del più furbo, di chi sa cogliere al volo le opportunità, la benevolenza verso chi parte svantaggiato semplicemente perché onesto è una stella che si spegne triste nel deserto della notte. La solitudine e l’insuccesso al quale si autocondanna chi sceglie di camminare per la strada meno battuta sembra già allo sguardo dei più la giusta punizione per la presunzione avuta nel sentirsi e voler rimanere ciò che è, un diverso. Sappiamo bene quale fine farà, sarà considerato un pazzo, un asociale, un borderline e questo sì, a buon merito. Tuttavia c’è un aspetto che viene comunemente sottovalutato e che dovrebbe quanto meno minare la presunta invincibilità di un siffatto sistema di pensiero ormai assurto ad ordinaria pratica di vita e cioè che se si può sopravvivere camminando allo scoperto in un mondo di rapaci, forse si è troppo piccoli per essere visti, troppo veloci per essere presi, sufficientemente mimetici da passare inosservati.
Prima regola di sopravvivenza: rimanere isolati, il fare gruppo aumenta pericolosamente la visibilità.
Questo ragionamento però solo apparentemente è a reale beneficio degli onesti perché l’individualismo è una pianta sterile, avvizzisce portando ad esaurimento le proprie risorse e sopravvive solo di rapina.
Ecco allora che anche l’onesto si fa incautamente tramite del sistema al quale vorrebbe resistere.
Finché il proprio orticello sarà visto come il migliore dei mondi possibili, il tutelarlo il primo ed unico dovere e si salvi chi può, nulla potrà realmente ostacolare il tritacarne del più forte. La storia c’insegna che spesso il benessere dei molti scaturisce dal sacrificio di pochi, alle volte di una sola persona e noi l’aspettiamo questa persona, appiattiti come vermi sotto una pietra, per poterne fare il messia disposto a salvarci morendo ammazzato per noi, per tributargli poi i dovuti onori, per un certo tempo, purché questo non si traduca in un aggravio fiscale. Essere onesti non significa semplicemente non truffare ed il vivi e lascia vivere è sempre meno il manifesto della tolleranza, piuttosto dell’indifferenza a tutto ciò che direttamente non brucia la nostra pelle di persone perbene.
Ecco allora che se il mio vicino viene licenziato perché la fabbrica per la quale lavora sta fallendo ed io riesco ancora a conservare il mio miserabile ed onesto posto di precario, la cosa mi dispiace, ma non scenderò mai con lui in piazza per reclamare. Se un insegnante del Sud che ha studiato in una prestigiosa università del Nord, riuscendo a superare i test di ammissione ed a laurearsi con il massimo dei voti – sebbene non fosse nella terra dove i titoli si comprano e si vendono come al mercato della frutta (perché mai poi questa persona abbia sentito l’urgenza di spostarsi prima non serve a nessuno chiederselo …) – vive, dignitosamente, facendo sacrifici, da precario in una regione del Nord, ed un suo collega, nonché conterraneo, che ha studiato al Sud e si è laureato come lui con il massimo dei voti, facendo la gavetta senza essere pagato per anni in un istituto paritario per cercare almeno di assicurarsi un minimo di punteggio, ormai avvilito ed esausto di vivere chiedendo i soldi alla famiglia (la stessa che gli avrebbe pagato pure a costo di morire di fame gli studi fuori se avesse avuto il coraggio di lasciare la propria terra), presenta domanda fuori sede per vedere per la prima volta uno stipendio, allora si che mi sento in dovere di appellarmi ai disonesti di turno per far si che ciascuno rimanga al posto proprio! Mors tua vita mea … Il fatto è che in verità nessuno può costruire una felicità durevole sull’infelicità di un altro e la visione edonistica che ci porta a dire, finché la barca va lasciala andare, godiamo finché dura, è solo un palliativo che non cura. Nasconde i sintomi, un po’ come si fa con i cattivi odori, ma presto o tardi tutto ritorna, come scorie non degradabili, ad appestare anche la spiaggia del nostro isolotto onesto e precariamente felice.
Il problema è che c’è chi, con sottile strategia politica, per mantenere il proprio potere e dare forza ad ideologie che si fondano sulla discriminazione, insinua nelle nostre coscienze la convinzione di aver più diritto di un altro ad un bene che è un universalmente riconosciuto come un diritto di tutti.
Ogni essere umano ha diritto ad essere felice, a formare, se lo desidera, una famiglia, a lavorare e godere dei frutti del proprio onesto lavoro, a condividere questi frutti con le persone che ama in una terra dove possa vivere in pace.
Forse bisognerebbe ripensare il nostro concetto di onestà e come lo spendiamo, un po’ come fece Totò a suo tempo, per scoprire realmente da che parte stiamo e se possiamo ancora dirci (e fino a che punto della storia) la banda degli onesti.
Antonella Foderaro