(Immagine Colazione da Tiffany)
Quando tracciamo dei confini lo facciamo sempre in nostra difesa, lo facciamo per paura e senza alcuna indulgenza per l’altro. Un velo smisurato di chiacchiere prende possesso dei nostri pensieri mentre una coltre gelida di bisbiglii paralizza ogni nostro piccolo segno di approccio. L’apologia dell’Io, del mio stato fragile di apertura verso l’altro. Paura? Ma di cosa? Denudare il nostro essere ci appare un sacrilegio inutile e pericoloso così edifichiamo (mattone, parola, gesto) un muro d’indifferenza. L’affetto si tramuta in un dosatore da centellinare solo in determinate occasioni. Desideriamo protezione, rassicurazioni perché il nostro Io deve essere difeso con i denti e le unghie. Chiusi nel nostro ventre di storie ripudiamo il suono dell’incontro, alziamo stupide barricate di diffidenza e lasciamo in punizione il nostro più sincero vedere. In realtà cosa vediamo? Dove poggiano i nostri sguardi? L’attenzione è sempre un compromesso tra ciò che ci incuriosisce e ciò che desideriamo. Tuttavia, il desiderare è anche un rifiutare. Pallidi sono i nostri tentativi al cospetto dell’altro perché il mondo non è un posto inesplorato ma una casa con la porta socchiusa. La parola si arma per una campagna di apparente valore, dove la vittoria è solo un nascondimento perpetuo. Si è un vincolo tritato di demoni irrisolti mentre l’Io predica una continua fede disumanizzata. In realtà cosa sentiamo? Dove riposano i nostri sensi? Il crollo della partecipazione è un’eventualità concreta che non tramonta alla fine di un volere. Così il vestito che indossiamo è un corpo che non ci appartiene, una parola apolide che emargina con imprudenza e insolenza ogni nostro timido tentativo di correre. Correre, con tutta l’energia di un cuore impazzito, nell’unico traguardo che ripudiamo, l’altro, il mondo.
Francesco Colia