Pensare a cosa sia casa, invita certamente ognuno di noi a considerare come tale la prima esperienza che abbiamo avuto di essa, sia fisica, quindi la casa del padre e la città natale, che affettiva: l’educazione primaria impartita dalla famiglia, dalla scuola, poi negli anni successivi l’esperienza condivisa con gli amici, e poi il contesto locale e allargando ancora l’idea, al momento storico e sociale.
Il nostro bagaglio culturale è un po’ quello che è per la lumaca la chiocciola, è il nostro riferimento di appartenenza e territorio conosciuto, sicuro e fondato, che forma l’esoscheletro della nostra personalità.
Mike Kelley, artista contemporaneo morto suicida nel 2012, portò avanti il proprio lavoro cercando appunto di capire dove avessero attecchito le proprie radici, quali fossero i luoghi che lo avevano plasmato, quali le esperienze che lo avevano segnato, così, come dovrebbe sempre accadere nell’arte quando questa è arte, partendo da un lavoro autoreferenziale, ha ricostruito l’intera sfera intellettuale ed emotiva di una generazione. Questo percorso ha portato l’autore all’autodistruzione, ma rimarrà per noi, uno tra i percorsi più intensi dell’arte del ventiduesimo secolo.
Kelley visse in America, a Detroit nello specifico, nel pieno di quella cultura fatta di musica rock e punk, b-movie, telefilm, droga, sesso alternativo, horror, disfattismo e nichilismo che era la beat generation, gli anni sono quelli del secondo dopoguerra e nessuno credeva di avere una precisa collocazione storica.
MIke utilizza tutti i mezzi espressivi a lui confacenti, si muove liberamente tra installazioni, musica, videoarte e performance teatrali, dipinge anche e sopratutto usa il ready made, per il gusto delle cose vecchie e ricche di storia che saranno tanto significative nella propria produzione.
Alcuni dei lavori più celebri sono i peluche usati e leggermente ambigui (che presterà per la copertina di un album dei Sonic Youth) simboli di una infanzia ormai consumata e archetipi dei dispiaceri infantili che a loro venivano confidati.
Egli torna quindi indietro nel tempo e nella memoria per cercare di ricostruire la propria infanzia, lo fa però non in modo storico ma simbolico e allegorico, come accade nell’installazione Extra curriculari Activity project Reconstruction (A domestic scene) del 2000, in cui viene riprodotto l’interno di una stanza molto scarna, in cui si vede un letto sgualcito e di fronte un forno aperto, che per Kelley rappresenta il contenitore esemplare di un evento traumatico sempiterno; solo che alle spalle della scenografia, scorre il video della piece diretta dall’artista in cui viene raccontato l’evento stesso e in cui riconosciamo il doppio televisivo della stanza. Questo ci offre due piani diversi e sfalsati di percezione, uno reale e silenzioso, uno fittizio e narrativo che insieme, concorrono a rendere l’evento reale per ognuno perchè possiamo toccare ed entrare nella stanza, e anche perchè l’essere spettatori di ciò che accade nel medium televisivo, ci ha per sempre reso partecipi (e in qualche modo complici) del misfatto.
Ciò scaturisce dall’idea che esista una memoria repressa collettiva, e che nella reiterazione dell’evento si possa assimilarlo fino a non farlo essere più un elemento di turbamento. Esattamente come accade nel gioco per il bambino, portato allo stremo nella ripetizione ossessiva, l’artista fa rivivere l’esperienza nell’installazione, nella piece teatrale e nel video, ogni volta in maniera autentica.
La casa è spesso associata ai traumi più profondi, perchè toccano la sfera dell’intimo e corrodono la zona di sicurezza che essa rappresenta.
Le mura casalinghe diventano i muri scolastici, e in Educational complex, installazione del 1995 che vede ricostruito con pannelli di legno un modello architettonico di istituto scolastico tipo, Kelly propone un luogo fisico tappezzato di piantine di tutti gli edifici scolastici da lui frequentati nella vita, assieme a scarabocchi di disegni di bambino, vignette satiriche e pornografiche, pagine di riviste dell’epoca e che, paradossalmente, viene realizzato in modo che somigli moltissimo agli uffici impiegatizi divisi da paretine di legno, tutti uguali ed impersonali, tipici di una società che tende alla castrazione intellettuale ed istintuale.
La città infine, casa dell’età adulta, è per Kelley una Detroit costruita sui cocci della propria infanzia: l’installazione-scultura John Glenn Memorial Detroit River Reclamation Project (Including the Local Culture Pictorial Guide, 1968-1972 Wayne/Westland Eagle) del 2001, riproduce da un lato la statua di John Glenn, astronauta ed eroe nazionale al quale era dedicato il liceo frequentato da Kelley, interamente ricoperta da cocci di vetro e ceramica recuperati dall’artista stesso in una vecchia discarica di Detroit. L’opera riporta inoltre, dall’altro lato, l’installazione di teche di vetro in cui sono state raccolte pagine e ritagli del giornale locale dell’epoca, con un’attenzione agli eventi più caratteristici e bizzarri del luogo.
In altri lavori l’artista si concentra invece sulla cultura in cui è cresciuto, il beat, il dark, il pop ed il trash, tipici dell’età adolescenziale e sempre è un lavoro di ricerca e di scavo nella memoria e nel subconscio, tentando di ricostruire quella memoria collettiva che nella sua storia personale ha subito uno strappo, purtroppo, irrimediabile.
Elena Sudano