“La coscienza dell’uomo è soggettiva e può non diventare mai obiettivamente cosciente di se, tranne che con lo sguardo fisso dell’altro. Se la funzione della gente è di essere come specchi per noi stessi, così è anche per l’opera d’arte„ [1]
Vi è mai capitato di sentirvi soli in mezzo ad una folla?
Leggendo il testo a seguire non potrete che riconoscere le sensazioni descritte e ritornare con la memoria a quegli istanti:
“Sono in strada, una qualsiasi strada di una qualsiasi città, mi guardo intorno: giovani, anziani, gente del luogo, forestieri ,anche turisti; si muovono, si agitano, entrono ed escono dagli edifici, qualcuno gira l’angolo e scompare, altri proseguono lungo la via e poi li perdo di vista, quelli che sembrano forestieri si guardano attorno alla ricerca di qualcosa che loro stessi non sanno. Mi soffermo ad osservare i più vicini. Penso: questa è l’umanità. Anch’io sono uno di loro, appartengo all’umanità. Vorrei leggere nei loro volti quelli che sono i loro pensieri, i problemi, le ansie, le gioie, le paure. Forse ogni uomo ha gli stessi pensieri, le stesse ansie. Vorrei guardarmi allo specchio, non ho uno specchio, cerco una vetrina per vedere se fa da specchio onde potermi riflettere in esso. Forse ho il volto di ciascuno di loro, sicuramente ho gli stessi pensieri, le stesse preoccupazioni, le stesse ansie. Forse tutta l’umanità pensa allo stesso modo. Ora cerco di guardare il volto di chi mi sta vicino: è un ragazzo con uno zainetto sulla schiena; più avanti vedo una ragazza, si ferma a guardare degli abiti esposti in vetrina. Ora che si è fermata posso guardarla in volto. Per un attimo ho l’illusione di poter scoprire ciò che pensa e forse sul suo volto riesco a leggere il suo “universo”. Rifletto: ciascuno di noi è un universo. Mi volto a cercare il ragazzo con lo zainetto. Non lo vedo più, è scomparso in mezzo alla folla. Non esiste più. Non lo vedrò più per sempre, come se non fosse mai esistito. Anche la ragazza fra poco sparirà. Mancano pochi secondi e poi non esisterà più. Non sono riuscito a capire quali sono i suoi pensieri, ma cosa importa, fra poco non esisterà più. Quanti esseri viventi ogni giorno ti passano accanto per un attimo, contenitori di un intero universo di pensieri, di gioie, di sentimenti….. poi, inghiottiti nel nulla, svaniscono.”
L’autore di questo testo, Aurelio Valentini[2], è anche l’autore di dipinti che non soltanto visualizzano la moltitudine di sensazioni provocate dall’incontro fugace con i passanti, ma che scavano fino nel profondo, raggiungendo emozioni che la mente cosciente non riesce ad elaborare e che le parole non possono descrivere. In Per non tornare del 2009, ciò che vediamo è una ragazza di spalle, un’estranea che sembra andar via e di cui probabilmente non conosceremo mai niente di più di ciò che si vede e il cui ricordo andrà confondendosi nel tempo con quello delle altre persone incrociate per caso. Approfondendo la lettura, noteremo che c’è molto di più in quello che non si vede che in ciò che è visibile: la ragazza è sola, non c’è un legame, non un contatto, non un volto, in realtà non c’è nulla, solo un bianco assoluto che circonda la figura. Il nulla è la negazione della materia e non a caso in alcune culture è il bianco il colore della morte (la negazione della vita). È come se quel biancore alludesse alla condizione effimera dell’essere umano, alla sua caducità, alla infinita solitudine portata alla luce da una semplice riflessione scaturita dalla vista di un volto che non si avrà mai l’occasione di conoscere, sensazione che in realtà, è sempre presente nell‘animo umano. Nel Medioevo la paura del domani incerto e buio aveva generato nelle rappresentazioni un fenomeno definito horror vacui, una maniacale propensione a riempire ogni centimetro di area a disposizione non lasciando neanche un lembo vuoto, come se negando il nulla si potesse in qualche modo scacciare l’alito di morte che pendeva su tutto quel periodo; ma il nero ha lo stesso valore del bianco ed il troppo è come il niente, entrambi destabilizzano, soffocano e rendono un non senso di tutto. Un’artista che indagò a fondo queste poetiche nel secolo scorso fu lo scultore Alberto Giacometti (1901-1966 Borgonovo in Svizzera): nella celebre Piazza del 1948 possiamo notare come tutte le figurine umane presenti in quello spazio si dirigano ognuno in una direzione diversa, nessuno si guarda, nessuno si tocca, neppure l’enorme testa al centro della piazza proferisce parola, tutto è silenzio, gli invalicabili spazi vuoti tra le figure rappresentano l’incomunicabilità tra le persone ed hanno lo stesso valore intrinseco del bianco nelle tele di Valentini. È frequente infatti, anche nei lavori di quest’ultimo, vedere gruppi di persone lanciati ognuno in una direzione diversa, rigorosamente di spalle e immersi in un biancore accecante, come è frequente nelle sculture e nei disegni di Giacometti, trovare donne sole, rimpicciolite nella lontananza, che non hanno né un volto, né un nome, né altro a cui appigliarsi. E se la visione di una persona di cui non si conosce il nome ci rievoca tali sensazioni di solitudine, quali credete siano le reazioni di fronte ad una persona di cui non si conosce neppure la religione, la cultura, gli usi, gli ideali politici? Non ci si identifica. È altro da noi e non una nostra proiezione nello specchio che gli occhi della gente rappresentano. L’ignoto genera paura, scatena un senso di protezione per cui l’intruso deve essere allontanato, e così non è in noi che nasce la sensazione di solitudine, e nemmeno nei nostri compatrioti con cui si trova un punto di vicinanza e si fa gruppo; come si può notare, lo sfondo bianco nel dipinto Il lavavetri è scomparso per cedere il passo ad un contesto urbano che caratterizza il personaggio. Di certo l’intento di questo dipinto è quello di indagare la figura del ragazzo straniero e non di allontanarlo, conoscerlo meglio, in modo da sentirlo meno estraneo suscitando anche compassione per quella figura un po’ triste con le braccia serrate al corpo, perché è di certo lui e non noi, in questo caso, a provare quel senso di solitudine che fa sentire inermi di fronte alla morte.
Elena Sudano