Le riflessioni sul linguaggio approdano facilmente a conclusioni sulla incomunicabilità, ma avete mai letto “La cantatrice calva”di Eugeneé Ionesco?
Per chi rispondesse di no, si tratta di una pièce teatrale leggibile in mezz’ora, in cui i personaggi si ingarbugliano in discorsi tutti votati al non-sense, per dirla alla francese, e che effettivamente non portano proprio da nessuna parte; ne sappiamo dei personaggi quanto ne sapevamo dall’inizio, o quanto avremmo potuto benissimo immaginare visto che sembrano tutti usciti da eserciziari di inglese di primo livello e neppure scopriremo mai chi sia questa tale Cantatrice Calva visto che viene solo nominata nel testo, anzi, di lei scopriremo solo che -si pettina sempre allo stesso modo-.
Inutile dire che il testo è spassoso da un certo punto di vista, ma molto drammatico da un certo altro e assolutamente un rompicapo per attori e registi, i quali non hanno realmente nessun appiglio di continuità narrativa o temporale se non perseguire nella logica dell’assurdo.
Quello che è invece utile dire, è che non si tratta “solo” di una pièce sulla incomunicabilità dell’uomo moderno, permeato di luoghi comuni e buoncostume, noi qui assistiamo ad un’autentica, paradossale, inesorabile, distruzione del linguaggio.
Vuoi che sia per il background dello sceneggiatore che, vissuto nell’immediato dopo guerra, ha avuto modo di elaborare tesi sull’assurdità dei comportamenti dell’essere umano, vuoi che sia per l’incipiente entrata in scena dell’era del consumismo, che col suo bombardamento pubblicitario ha riempito le teste di parole ripetute e ripetute all’infinito, fino a privarle del significato stesso; fatto sta che Ionesco immagina, ad esempio, che questi tali signori Smith di cui facciamo la conoscenza in scena, appaiano assolutamente ignari l’uno dell’altra nonostante siano felicemente sposati, fintanto da dover arrivare per sillogismi (!) a riconoscersi quali coniugi, dato di fatto che verrà stravolto dalla cameriera Mary, la quale svelerà al pubblico (e queste sono le prime volte che viene abbattuta la famosa “quarta parete”) che si tratta di una enorme coincidenza e che in realtà i due non sono chi credono di essere, e lei stessa è in realtà -Sherlock Holmes-.
I discorsi sono folli, ma non così tanto senza senso. I giochi di ruolo e i rimandi continui destrutturano il tessuto narrativo esattamente come fa con noi la tv, interrompendo i film con la pubblicità o peggio ancora internet, in cui tutto si rivela anche il contrario di tutto. Somigliano per altro anche a quelle chiacchiere da salotto a cui tutti abbiamo partecipato, in cui ci si parla addosso costantemente o si aspetta il proprio turno per parlare senza ascoltare davvero una parola di ciò che dice il nostro vicino; quindi si, incomunicabilità estremizzata, ma la drammaturgia è un crescendo, che contraddittoriamente spinge in un abisso i personaggi, in un vortice di parole slegate, ripetute all’unisono e sovrapposte, parole smontate lettera per lettera, contornate di ira e urla che rendono la recitazione quasi un effetto noise underground più che un parlato, e il testo quasi una poesia futurista.
A leggere bene nei sottotesti, si scopre che i rapporti che Ionesco crea sul palco di questa rappresentazione senza capo né coda, sono molto più aderenti al reale di quanto immagineremmo.
C’è una tale stupida ipocrisia da fare invidia ai talk show, mentre il ragionamento intrinseco ci svela quanto realmente corrotto sia il nostro sistema di linguaggio basato sulle parole.
In alcune rappresentazioni teatrali l’ultima scena è sviluppata con i personaggi che, posti in fila per uno, scimmiottano un treno in corsa intorno al salotto fino al più alto grado di rumore/parole/improperi possibile ed immaginabile che si protrae fino al buio di scena, attimo in cui si chiude il sipario. Ma non è la fine.
Il testo é godibile anche solo da leggere, viste le numerose e pertinenti (o ambiguissime) note dello sceneggiatore; in teatro offre molti spunti interpretativi ed espressivi; nel 1950 fu portato in scena per un lunghissimo periodo al Theatre des Noctambules, a cui Ionesco lo sottopose e nel quale ebbe uno stratosferico successo, dopo le ovvie reazioni di sdegno iniziali da parte del pubblico.
Da lì nacque il Teatro dell’assurdo e nel 1952 vide la luce “Aspettando Godot” di Samuele Beckett; da allora si parlò di Teatro Nuovo.
Per sapere come si “conclude ” la vicenda, invito calorosamente alla lettura e se capitasse di vederla in palinsesto di un teatro di quart’ordine, non esitate ad entrare!
Elena Sudano