Giuro, questa è l’ultima volta che mi siedo al centro dell’universo. Devo smetterla di avvitarmi su me stessa. Sono come gli altri, è questa la verità, non c’è nulla di speciale in me. Non è una cosa negativa, anzi: sono felicemente come gli altri. È una liberazione, in fondo. Quindi non mi farò più a pezzi, tanto tutto è già stato detto, scritto, raccontato, suonato e cantato. Ma siamo agli ultimi passi, e mi concedo ancora qualche parola. Non per piangere, né per celebrare il dolore, la rovina, ma per battezzare i rimedi, le mie medicine.
Sono arrivata, dunque, in questo luogo di quiete. Vedo tutto: strade, mulattiere, terra, tasselli di cielo, alberi, libri, pensieri, parole, opere e omissioni. Gli incontri e gli scontri, le persone che hanno portato i pezzi per assemblarmi, quelle che hanno rotto il giocattolo, che hanno abbandonato questo piccolo corpo, “Vai, balla!”. Incrocio gli umani che ho deluso, quelli che non ho trattenuto (mi guardate in modo strano: mi pensavate innocente?): vorrei far finta di nulla, ma non li posso ignorare. Per loro ho un mezzo sorriso: sorry, è andata così.
Vedo tutto, senza soffocare.
È l’ultima volta, giuro. Poi smetterò di girare in tondo, di roteare gli occhi, di voltarmi per capire. Non guarderò nemmeno avanti. Al diavolo l’origine, i percorsi, il futuro. Tra ciò che è stato e ciò che sarà scivolano le guarigioni, conquiste di pace, e i nove rimedi che mi hanno restituita al mondo. Non le strade, ma le aperture, la nascita e la morte del fiore.
Le mie guarigioni, tante in una, tutte meno una. Manca l’ultima: il passo falso, il lampo, la capriola, l’interruttore.
I miei cambi di rotta sono quinquennali. Già, ogni cinque anni, più o meno, mi ammalo e guarisco. Ogni cinque anni la vita si rovescia, e io devo ricominciare da zero. Cambio, in meglio o in peggio, non importa. All’inizio, c’è questo piccolo taglio, una minuscola ferita. Nulla di importante. Così, la trascuro, non ci faccio caso: confesso, mi infastidisce. La piccola ferita inizia ad allargarsi; nel giro di poco tempo diventa una voragine. Quando decido di intervenire la situazione è irreparabile, senza speranza. Non c’è molto da fare: arrivata a questo punto, mi limito a rattoppare. Con un filo, come una sarta, provo a richiudermi, come posso, e ciò che si forma è altro, qualcosa di nuovo. La pelle-involucro sembra una piccola catena montuosa, con sbalzi e dislivelli. Anche le cose che stanno dentro assumono forme diverse. Attraverso la ferita è entrato di tutto, senza filtri, senza guardie pronte a fermare gli intrusi. Ricucendomi, mi modifico. E allora è necessario creare un nuovo alfabeto, cambiare prospettiva, punto di vista. Unendo lembi e attaccando alla meglio i pezzi mi trovo tra le mani un essere ri-composto. Chiamo questo processo guarigione. La ferita in qualche modo si chiude; è bruttina da vedere, se ne starà per lo più in silenzio, qualche volta tornerà con piglio guerriero, farà la pazza quando cambierà il tempo.
Dopo un anno, due al massimo, scopro una nuova lesione: piccola all’inizio, pronta ad allargarsi col tempo. Non imparo, non imparo mai: lascio che tutto avvenga, che la ferita diventi immensa, e via di questo passo. Sono arrivata a quota sette. Sette giri, sette guarigioni. L’ultima, però, è stata diversa. Sono passati più di tre anni, e ancora la pelle non si è riaperta. E’ stato un cambio gentile. Una capriola, due, tre, ed eccomi in un tempo nuovo. Solo una sbucciatura al ginocchio: l’età è quella che è.
Sarà che l’ultima volta non mi sono ricucita, la mano malferma e la vista debole mi hanno impedito di infilare il filo nella cruna dell’ago. Non ce l’ho fatta. Lacerata, con le ossa in vista, mi sono distesa sul prato. Ho lasciato che gli alberi, i miei cari e i dottori mi coprissero di foglie. Ho chiuso gli occhi, aspettando che passasse l’inverno. Senza ago, né filo. Non era sonno, il mio: immobile ascoltavo, sentivo. La nebbia, la pioggia, la neve.
Si può cambiare, davvero, la propria Idea sul mondo, sullo stato delle cose? Io mica ci credevo, prima di essere vestita di foglie: così è, dicevo. Sì, ma può anche essere altro. E altro sia, dissi, riaprendo gli occhi. L’inverno del 1912 mi portò i rimedi, le nove pietre che hanno levigato la pelle. Con quale grazia ora questo corpo accoglie gli eventi-freccia, le variabili impazzite, le deviazioni sul tavolo da biliardo, l’obliquo che attraversa a sorpresa la vita! Sorride alle benefiche botte in testa, alla mente sottile che vede e non trattiene. Intorno svolazza l’instancabile creatura, chiusa in convento qualche vita fa. Muta, non ha conosciuto dolori, paure, solo un leggero spaesamento. “Mi hanno portata qui, per ascoltare e servire”. L’ha fatto per nove anni. La più pura, tra le migliaia di anime che ho incrociato.
Stefania Crozzoletti
(inedito 2013)