Il latino “persona-ae” designa la maschera dell’attore e ha dato origine al termine persona. “Persona” è la stessa parola che Jung adotterà per indicare proprio la “maschera” che l’individuo assume nelle relazioni e nel rapporto con ciò che lo circonda. Secondo Jung ciò non è da intendersi come falsità o manipolazione, ma come identificazione con alcuni aspetti che prendono il sopravvento, al di là del ruolo sociale assunto nella comunità. Le conseguenze del processo di globalizzazione e i rapidi mutamenti sociali ai quali assistiamo travolgono prima di tutto certezze nazionali ed identità locali. Il tradizionale concetto di cittadinanza va in crisi. La presenza sullo stesso territorio di un numero crescente di persone portatrici di diversità impone un ripensamento dei temi dell’alterità che non può più essere definita semplicemente nei termini di differenza culturale, demografica o sociale. Ciò che contraddistingue queste persone è proprio la mancanza della “maschera” identitaria. Esse non la posseggono e dunque che tipo di persone potranno mai essere? Privi della possibilità di essere identificati come appartenenti a una certa comunità, diventano l’oggetto di ogni discorso sull’alterità, eppure strumento privilegiato e necessario di una ricerca che deve essere condotta in via prioritaria dentro noi stessi e dentro la nostra società, con i suoi meccanismi che inventano, costruiscono e mantengono in vita l’estraneità.
Io vengo a cercare una vita, la sola che dia un senso alla mia, la sola che allunghi la mia tanto da poter salvare le speranze di coloro che mi attendono, coloro che mi sognano e che sono la mia stessa vita, quella che porto qui con me adesso.
In fondo la privazione della maschera, l’anonimato, altro non è che il simbolo del sé primario, dell’ego autentico che si manifesta in relazione agli altri avulso da un contesto sociale e politico. L’uomo e la donna anonimi sono coloro che vengono prima ancora del concetto di società e di Stato. Sono identità autentiche che, provenendo da un istantaneo processo di decostruzione delle principali rappresentazioni dominanti e dalle convenzioni vigenti, consentono la costruzione di una identità comune ibridata. Una identità nuova e adeguata ai tempi che consenta di guardare al futuro con speranza. Tuttavia il processo di decostruzione e successiva costruzione di questa nuova identità deve partire dentro di noi che guardiamo a quelle “diverse” persone designandone la legittimità sociale. Esse sono tali in funzione del sottile diaframma che non riesce a coprire l’autentico volto, ma che, al tempo, ne rivela altre qualità in un’operazione di riaffioramento e svelamento di aspetti sepolti della psiche. L’indagine intorno a ciò che è “straniero” e “nemico” diventa la linea di ragionamento adatta a chiarire le nozioni di “persona” e “confine”. Nozioni cruciali e problematiche come Stato moderno, popolo e nazione restano come sfondo alla prospettiva entro la quale tentiamo di muoverci giacché è proprio la scelta tra inclusione ed esclusione a determinare la corretta attribuzione di senso.
Io vengo con la mia storia, la sola che conosco, quella ascoltata non quella studiata. Io vengo con la mia storia, la sola che ancora deve essere perché sta a me scriverla in una lingua che non conosco e che dovrò imparare solo per poterla raccontare.
Riflettere sullo straniero e sul nemico significa, nella nostra concezione, stabilire una linea di confine tra chi appartiene ad un certo ordine, ad uno spazio politico condiviso e chi ne è escluso. Il confine, sia pur privato di una mera dimensione territoriale, ci appare in tutta la sua plastica e potente metafora spingendosi fino al livello di confine della mente, una linea di demarcazione dell’ordine precostituito, una barriera labile e mobile che aiuta a decretare “chi è dentro” e “chi è fuori” da un gruppo, da un popolo, da uno Stato, ma, soprattutto, da noi stessi. Coloro che hanno una diversa maschera o che, assai peggio, non la possiedono affatto, ebbene riteniamo che non possano appartenerci, non possano avere dimora dentro di noi prima ancora che presso di noi. La questione si gioca tutta qui. La attraversabilità di quei confini, fisici o mentali che siano, da ambo le parti, ovvero da noi e dagli “altri”, sancisce irrimediabilmente, ma anche drammaticamente, il rigido rigore con il quale in uno spazio politico, secondo le persone che vi appartengono dunque, viene interpretato il criterio di inclusione e di esclusione. Eppure straniero può essere chi si trova oltre i confini tanto quanto chi, pur avendo diritto ad essere all’interno di certi confini, pure vi dimori in una posizione subordinata, appena tollerata, in certi casi coatta. Nessuno potrà essere ritenuto tale e trattato come una persona senza l’inclusione a qualunque costo in un ordine sociale precostituito.
Io sono come voi. Posso amare, soffrire, gioire, piangere e ridere. Posso farlo come voi, ma non posso se voi non mo lo concedete, se voi non mi riconoscete. Io posso esistere solo se esisto ai vostri occhi e se posso essere come io sono ai vostri occhi.
Il termine persona torna dunque a porci il tema del concetto stesso di Stato e lo straniero appare persino indispensabile, con la sua presenza ostile e minacciosa, a legittimare una identità sociale. Il superamento dello scarto concettuale esistente tra “straniero” e “nemico” consente di concentrarsi sul significato dello straniero/persona e della maschera che esso debba avere. Nessuna, è stato detto all’inizio. Dal momento che le società moderne non concepiscono e non creano a priori delle identità possibili per gli stranieri. Eppure, riuscire a farlo, è una opportunità irrinunciabile. Solo coloro che hanno una possibile impersonificazione per essi, una porta aperta, una sedia pronta, sono realmente pronti ad un futuro libero e globale. La globalizzazione può essere una opportunità se vissuta in chiave identitaria molteplice e ibrida e, proprio per questo, accogliente. La “creazione” dello straniero come tipica strategia identitaria è realtà storica nella società americana (si pensi al trattamento destinato ai neri e ai nativi). Tuttavia sullo stesso piano sta l’intervento sugli zingari nel nostro continente. Il controllo e la disciplina cui essi vengono sottoposti a partire dal XIX secolo appaiono come una forma di esclusione interna o, meglio, di inclusione forzata ed omologante nell’ordine sociale. Con l’avvento della biopolitica, basta essere un uomo per essere precipitati nella ‘nuda vita’, inerme, spogliata di ogni maschera, meccanicamente sopprimibile, nella quale i confini sono stati soppiantati dal recinto del campo di concentramento.
Io non conosco le tue regole e non so se esse siano giuste, ma metti le tue mani nelle mie e vediamo se quelle regole valgono ancora nelle nostre mani unite. Prova a guardare nei miei occhi perché io ho percorso la parte di strada che tu non vorrai mai percorrere. Posso raccontartela affinché tu non debba percorrerla. Io sono il tuo futuro ignoto, ma anche il tuo presente noto. Posso essere tutto ciò che tu non vorrai essere eppure scegliere con te di essere altro da me e da te.
La diversità atterrisce perché sancisce inesorabilmente i nostri limiti, gli angusti spazi della nostra capacità di “comprendere”. L’apertura all’altro, allo straniero, è dunque un percorso di miglioramento, la strutturazione di una diversa cultura. Possiamo imparare. Coloro che arrivano presso di noi da stranieri, possono insegnarci a superare noi stessi. Essi sono pronti a farlo. Hanno lasciato le loro case, la loro terra, i loro affetti. Li spinge l’istinto di sopravvivenza. Sono più motivati di noi opulenti e limitati. Loro hanno fame. Non possiamo che perdere. La scelta è solo tra un futuro fatto di nuove identità oppure di personalità incapaci di perpetrarsi perché prive di ogni seme. Straniero non è solo chi varca una frontiera, ma anche chiunque lasci la comunità alla quale appartiene per tentare di integrarsi in un’altra. Straniero è chi lascia la propria famiglia, la propria casa per costruire una nuova vita. Straniero è chiunque viva diversamente da chi detiene il senso comune. In tal senso è prima ancora si formi e che venga attribuito l’appellativo di straniero che si può lavorare dentro di noi. Una cultura che ammette, che contempla, che si apre, non presuppone confini da superare. Una continua mediazione con la diversità consente di superare ogni spazio frapposto. Tra le persone non esiste alcuno spazio a priori, ma solo quello che noi reputiamo ci debba essere. E’ uno spazio la cui misura è funzione della differenza e della lontananza. Eppure abbiamo lo stesso cuore e le stesse mani, possiamo amare di uno stesso amore. La lontananza non esiste se può essere superata in un istante e la differenza si può annullare prima ancora che si manifesti. Dobbiamo privarci delle maschere, dunque, apparire come anonimi desiderosi di conoscerci e di riconoscerci gli uni con gli altri. In questi scambi si costruisce la vera conoscenza. Una vita legata ad un tempo e ad uno spazio è una vita che contempla la fine fin dall’inizio. Una vita mobile, liquida, ibrida costruisce il suo futuro scoprendolo ogni giorno negli occhi dell’altro.
Io indosserò la maschera che tu mi darai perché non ne ho una mia. La indosserò per tutto il tempo che vorrai. Tuttavia vorrei poterti mostrare il mio volto nudo, aprire i miei occhi, sorridere con la mia bocca. Io indosserò la maschera che tu mi darai per essere come te, ma so che potremmo stare entrambi senza una maschera ed essere persone nuove. Io vorrei toccare il tuo volto per sentire che la tua pelle è come la mia. Il tuo cuore, lo so già, batte come il mio. Questa non è la mia casa e la mia terra è altrove. Eppure tutto può essere vicino e adesso se noi riusciamo a sentire che possiamo amarci dello stesso amore.
Pasquale Esposito