Il libro del premio Nobel per la letteratura nel 1975, Saul Bellow (1915-2005), intitolato Il dono di Humboldt (1975), è un’opera che si presta a diverse interpretazioni: letterarie, filosofiche, forse sociologiche. Leggendolo come una reale autobiografia di un personaggio che non esiste invece, possono sorgere nella mente alcune considerazioni che esulano dal contesto di un’opera che comunque consiglio a tutti di leggere.
Il protagonista del libro, o meglio, l’oggetto del racconto dell’io narrante (che è l’intellettuale Citrine), è il poeta Humboldt Fleischer. Si tratta di un amico di Citrine, anzi, del suo maestro, un poeta morto anni prima, dopo essersi minato l’animo e il fisico. Ecco, leggendo queste pagine è scattata in me l’idea, forse un po’ usurata, della solitudine dell’artista, che nel libro di Bellow è ampiamente tratteggiata. La solitudine riguarda sia Humboldt, sia chi narra, ossia Citrine (e forse anche Bellow, possiamo supporre).
È da poco passato il 59° anniversario del suicidio di Cesare Pavese. Edgar Allan Poe morì a quarant’anni nel 1849 fuori di sé. E poi molti artisti sono stati ubriaconi, tossici, suicidi e così via. Ma non è tanto questo il punto; m’interessa sfiorare la questione del ripresentarsi, oggi, nell’epoca contemporanea, della tecnologia, dell’informatica, del consumismo, del problema della funzione del poeta. Siamo nell’epoca dei festival di letteratura, dove anche i poeti hanno il loro spazio e i loro applausi. Può essere corretta l’idea di aprire le porte della poesia a un pubblico ampio, non esperto. Dall’altro, lato, però, questa modalità di esposizione della poesia, rivolta a un pubblico vasto ed eterogeneo, reca con sé il rischio di una “volgarizzazione” eccessiva dei temi e delle tecniche. E mi domando: dove si può trovare oggi quel carattere della poesia che la individua come forma d’arte che sa indicare un “oltre” a chi legge, una sorta di opposizione alla realtà comune, che non è una fuga, bensì ricerca di quell’universale che già Aristotele indicava come il contenuto dell’opera poetica?
Si tratta di questioni che richiederebbero centinaia di pagine. E allora torniamo, anche qui sinteticamente, a domandarci qual è oggi la funzione della poesia. È la questione delle questioni, e dirò solo due parole rapide. Io credo che solo il porsi la questione della “funzione” di un poeta distrugga l’immagine del poeta stesso. La poesia non “serve”, non ha utilizzazioni pratiche, né finalità materiali. Questo non significa che la poesia abbandoni la realtà, tutt’altro; la famosa espressione “arte per l’arte” (la frase di T. Gauthier) non è un dogma, perché attraverso l’arte si può combattere, ci si può in ogni caso spendere per un’idea, ma l’arte in sé non serve a nulla. Questa è una prima convinzione che dovrebbe stare nelle nostre teste. Poi possiamo applaudire il poeta che recita in piazza, andando a casa colmi di quell’indefinibile soddisfazione che deriva dal profumo dell’arte. E per una volta mi viene voglia di citare il controverso Ezra Pound, allorché scrive: “L’arte non chiede mai a nessuno di fare nulla, di pensare nulla, di essere nulla. Esiste come esiste l’albero, si può ammirare, ci si può sedere alla sua ombra, si possono coglierne banane, si può tagliarne legna da ardere, si può fare assolutamente tutto quel che si vuole”.
Saul Bellow scrive nel suo libro: “I poeti sono amati, ma solo perché non sanno stare al mondo”, aggiungendo che è grazie a loro che il resto del mondo sopporta il cinismo a cui la vita lo costringe o a cui l’esistenza lo invita. Un poeta come Humboldt esiste perché deve portare su di sé lo “sporco” del mondo, la sozzura che le persone normali incontrano, producono o subiscono e che non sanno cancellare. Il poeta redime il mondo, soffrendo per le brutture degli altri. E cercando di lavarle via.
Allora il poeta non serve davvero a nulla, e lo dimostrano le pagine più pure delle poesie che amiamo. E poi: un poeta non sa operare un paziente, né guidare un aereo, progettare una casa o un ponte. Ma è un’entità che scrive e crea. E proprio qui c’è il riscatto del poeta, io direi, il nucleo centrale del libro di Bellow, almeno per come l’ho letto io. Bellow lo dice chiaramente. Egli afferma, infatti, che il poeta non deve avere un’identità. L’identità ci viene concessa dalla sfera sociale ed è un’etichetta che ci rende riconoscibili all’esterno, nei nostri rapporti sociali e umani. Siamo operai, impiegati, insegnanti, professionisti, ingegneri, attori, musicisti, disoccupati e così via. L’identità è un segno o un odore di riconoscimento. “Il tuo cane ti riconosce”, dice Bellow.
Invece, gli uomini di grande valore (e non sempre gli artisti lo sono) sono un’entità, non si devono quindi limitare ad avere un’identità. Il poeta non ha alcuna identità, intesa come etichetta sociale, come “maschera” da indossare sempre, perché egli sa guardare dall’alto quel “qualcosa”, magmatico e indefinito, che vive nel mondo. Egli dunque “È” un’entità, ovvero un uomo che non si perdona mai, che non è indulgente con se stesso, perché ha nella testa la sua grandezza e, come un ossesso, sa che deve raggiungerla, a volte scarificare a lei la propria esistenza.
Chi ha semplicemente un’identità, e s’accontenta di essa, è più indulgente con se stesso; probabilmente vive meglio, con maggiore calma, almeno in superficie: si siede sul suo divano, si versa da bere, guarda la TV, magari legge i poeti. Chi è un’entità, invece, è uno schiavo dell’arte. “Un’entità è una potenza impersonale che può fare spavento”, afferma Bellow. Ecco, il poeta dovrebbe imparare a spaventare gli altri, a mettere in crisi, a pungere le anime atrofizzate. Un destino davvero ingrato, ma irrinunciabile.
Giuseppe Barreca
eletta senso
proprio poco fa ho scritto dei poeti e della poesia (articolo su La Lettura).
bello questo testo che riprende il tema dividendo poeti e altri
davvero chi fa Poesia intende in modo diverso il mondo e il sé
è più “esposto” ed è proprio la sensibilità a colpirlo e a trasformarsi in verso
una specie di lenta digestione della realtà, uno sguardo che si trasforma e gli permette di leggere realtà e sé in modo assimilabile