
Simone Weil 1909–1943. From Wikimedia Commons.
Per comprendere meglio il pensiero di Simone Weil, filosofa e attivista francese vissuta a cavallo tra la prima e la seconda Guerra mondiale (1909-1943), dobbiamo guardare alla sua breve vita che rispecchia fedelmente la fioritura delle idee.
Intellettualmente precoce, Weil ha espresso consapevolezza sociale fin dalla tenera età. Dopo gli studi in filosofia, filologia classica e scienze, Weil insegnò a sua volta filosofia in diverse scuole femminili dal 1931 al 1938 venendo spesso coinvolta in conflitti con i consigli scolastici a causa del suo attivismo sociale (per saperne di più leggi qui ).
Per studiare gli effetti del lavoro industriale, iniziò a lavorare in una fabbrica di automobili tra 1934-1935. Nel 1936 si unì ad un’unità anarchica vicino Saragozza, in Spagna, ma fu presto costretta a ritirarsi a causa di un incidente che le procurò una grave ustione.
Weil ha lottato durante la sua breve vita contro i limiti impostile da una salute estremamente cagionevole, dalle sue fobie e da una società maschilista e razzista, riuscendo a trasformarli in un terreno fecondo tutt’oggi non sufficientemente attenzionato.
Quando si parla di Simone Weil, si metteno insieme ebraismo e cattolicesimo, ma anche attivismo, misticismo, femminismo, insomma si viene posti di fronte ad un inusuale sodalizio che distrae dalla finezza del pensiero filosofico se non colto nella sua unità.
Recentemente ho riletto “La persona e il sacro” un saggio pubblicato da Adelphi nel 2012 ed ho provato ad ascoltare le parole di Weil, cercando di non farmi condizionare dall’immaginario costruitole intorno, che la nasconde piuttosto che rivela.
Fin dalle prime righe si evince che la riflessione di Weil scaturisce non solo da una profonda conoscenza storica, filologica, filosofica e letteraria, ma da una profonda esperienza personale che non ha assolutamente nulla di mistico.
“Lei non m’interessa”. Un uomo non può rivolgere queste parole a un altro uomo senza commettere una crudeltà e ferire la giustizia.
“La sua persona non m’interessa”. Queste parole possono essere pronunciate in una conversazione affettuosa tra buoni amici senza ferire quell che vi è di più delicatamente suscettibile nell’amicizia.
Allo stesso modo si può dire senza degradarsi: “La mia persona non conta”, ma non: “Io non conto”.
È la dimostrazione che il vocabolario della moderna corrente di pensiero detta personalista è erroneo. E in questo ambito, là dove vi è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore di pensiero. (p. 11)
Weil invita subito i suoi lettori a riflettere sui limiti del significato di persona secondo l’interpretazione data dalla corrente di pensiero personalista. Si tratta di un concetto troppo astratto, “impossibile da definire”:
“Ecco un passante: ha lunghe braccia, occhi celesti, una mente attraversata da pensieri che ignoro, ma che forse sono mediocri. Ciò che per me è sacro non è nè la sua persona nè la persona umana che è in lui. È lui. Lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tutto. Non arrecherei offesa a niente di tutto questo senza infiniti scrupoli. Se quello che vi è di sacro in lui per me fosse la persona umana, potrei cavargli gli occhi facilmente. Una volta cieco, sarà una persona umana esattamente come prima. Non avrò affatto colpito la persona umana che è in lui. Avrò soltanto distrutto i suoi occhi.” (p.12)
Non facciamoci ingannare dall’uso della parola ”sacro”. È vero che Weil proviene da una famiglia di origine ebraica, è vero che si avvicinerà alla Chiesa cattolica (senza mai aderirvi!), ma è altrettanto vero che non aderirà a nessuna delle due. Weil è una filologa e le parole hanno per lei un peso etimologico e storico. Sacro è quindi qualcosa di separato, inaccessibile, intoccabile perchè appartenente ad una sfera diversa. Di fronte al sacro tre atteggiamenti sono possibili, ma solo due sono dovuti: il rispetto e l’adorazione (nel caso lo si consideri come appartenente alla sfera del divino). Il terzo, l’incredulità, seppur legittima, è quella dalla quale poi nasce il disprezzo che ha come conseguenza la persecuzione e la distruzione.
Poichè qui Weil non parla di un tempio, di una religione, della persona umana in generale o di un qualsiasi concetto astratto, ma di te precisamente, con i tuoi occhi e le tue braccia, i tuoi pensieri mediocri o eccellenti, devi ammettere che il discorso non può lasciarti indifferente.
Ma che cos`è questo “sacro” in te che Weil così ardentemente difende?
“Dalla prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro”. (p. 13)
Weil non dice che il bene è il sacro, ma l’unica fonte del sacro. Così dicendo non lo limita, volutamente non lo definisce, perchè come si potrebbe limitare e definire qualcosa che è allo stesso tempo universale e particolare, unico come ciascuno di noi lo è?
“Solo il bene e ciò che è relativo al bene è sacro”.
Si tratta di una nozione che potremmo definire “a cascata”, alla quale altre nozioni sono relate. Questa invincibile aspettativa di bene è in te e in me ed in ogni essere umano. Io aggiungerei in ogni essere. Ci si aspetta e si spera sempre di riceverlo, anche quando si è stati vittime, testimoni o causa di ingiustizie. Weil afferma che questa giustizia è “impersonale” poichè non è legata al ruolo che l’individuo assume nella società (Foderaro, 2023) e non è legata ai diritti riconosciuti e acquisiti tramite la legge (Andrew, 1986).
Ogni essere umano è inviolabile ed ha l’obbligo di riconoscere in sè e negli altri quel bene che lo rende tale.
Questo comporta delle responsabilità perchè “Chi è penetrato nell’ambito dell’impersonale vi trova una responsabilità nei confronti di tutti gli esseri umani” (p. 22).
E questa responsabilità consiste nell’operare affinchè ciò che è inviolabile in te, venga protetto e rispettato anche negli altri, altrimenti l’essere umano sprofonda nella “sventura”:
“La sventura è un meccanismo che stritola l’anima; l’uomo che vi rimane catturato è come un operario ghermito dai denti di una macchina. Non è niente di più che una cosa lacerata e sanguinolenta.” (p. 43)
Questo paragone ci ricorda che Weil non scrive o ragiona per sentito dire, ma che alla base della sua filosofia vi è un vissuto, fatto di studi e di ricerca, di lavoro nella scuola e in fabbrica, fatto di malattia e di sventura perchè come lei stessa scrive:
“Ascoltare qualcuno significa mettersi al suo posto mentre parla. Mettersi al posto di un essere la cui anima è mutilata dalla sventura, o in pericolo imminente di esserlo, significa annientare la propria anima. (…) Così gli aventurati non trovano ascolto.” (p. 44)
Ma se Weil è stata capace di ascoltarne la voce, o meglio il “grido muto”, non è grazie ad un’estasi mistica, anche se per molti è consolatorio pensarlo, ma perchè è stata capace di prestare attenzione all’altro ed ha fatto esperienza della sventura in prima persona.
Weil ci ricorda che non ci sono giustificazioni per l’indifferenza verso gli altri: ignorare l’altro è ignorare se stessi.
Antonella Foderaro
Bibliografia
Andrew, E. (1986), “Simone Weil on the injustice of rights-based doctrines”, The Review of Politics,
Vol. 48 No. 1, pp. 60-91, doi: 10.1017/S0034670500037517
Foderaro, A. (2023), “On impersonal justice: libraries’ neutrality as an act of change”, Journal of Documentation, Vol. ahead-of-print No. ahead-of-print. https://doi.org/10.1108/JD-10-2022-0227
Weil, S. (1986), “Human personality”, in Miles, S. (Ed.), Simone Weil: An Anthology, Penguin Books,
London, pp. 69-98, https://antilogicalism.com/wp-content/uploads/2019/04/weil-anthology.pdf