Tommaso ha l’impressione – un’impressione netta, difficilmente equivocabile – d’essere già stato in quel luogo, malgrado, al momento, egli non riesca a ricondurre una simile impressione a un’esperienza vissuta, un evento preciso in grado d’identificarlo, isolandolo da tutto il resto. C’è, nel colore indeciso del cielo, nella linea squadrata dei palazzi che appena s’intravedono sullo sfondo, nel filare dei tigli interrotto dall’incrocio sulla grande via principale, c’è in tutto questo un che di familiare, una sorta d’anima rappresa che fa fatica a sprigionarsi da un corpo troppo pesante. Su quella via si celebra ora il trambusto del giorno, un giorno come un altro, rischiarato da un sole pallido, che sembra appeso a un soffitto invisibile – si celebra su quello stesso asfalto che la notte, poco prima, percorreva coi suoi piedi di velluto, infondendogli il suo debole calore da nomade. Ed è nomade pure Tommaso in quel suo non raccapezzarsi proprio quando, dai segni che pullulano intorno a lui, egli constata di non essere affatto estraneo a quanto lo circonda. Vittima di un’amnesia crudele appunto perché non tale, ma dimenticanza parziale, dagli squarci segreti della quale insistono a trapelare riflessi di luce, egli continua ad aggirarsi con passo aritmico in un luogo che, per strano prodigio, non gli appare per nulla sconosciuto. Ora tende l’orecchio al fischio – un treno, una nave, la sirena d’una fabbrica? – il cui diagramma sonoro crede di leggere stampato a caratteri cubitali sopra un enorme schermo; ora calpesta un gruppo di foglie secche ricevendone una sensazione come di ossa che si sminuzzino; ora, infine, saluta una persona che è certo di conoscere da tempo, ma non ne riceve alcuna risposta. Deluso, egli comincia allora ad arrampicarsi sugli specchi, suppone che, in quel posto, egli ci sarà pure stato, ma forse solo per qualche tempo, di passaggio, o, più probabilmente, le sue coordinate geografiche somiglieranno a quelle di un altro posto col quale il centro caotico dov’egli si trova adesso non ha proprio nulla da spartire. Pensa pure che l’avrà immaginato, quel posto, forse sognato; se così non fosse, Tommaso non comprenderebbe il motivo di tutti i suoi dubbi, che sorgono l’uno dopo l’altro proprio come i funghi sotto le umide radici della quercia, via via che l’orizzonte si spalanca e il chiarore del mattino illumina a fasci il nuovo giorno. Gli è successo altre volte. In luoghi del tutto diversi, spesso anzi nemmeno di luoghi si trattava, piuttosto d’angoli, cantucci scavati in profondità nascoste, e di cui Tommaso, per ragioni incomprensibili, aveva a un certo punto notato l’esistenza. Paesaggi interiori insistono a stratificarsi in lui da tempo immemorabile, tanto da confondersi ogni possibile assonanza tra l’uno e l’altro. Quello sperdersi e ritrovarsi, ancorché nebuloso, filtrato da una sorta di sottilissima filigrana, non è mai per Tommaso una rivelazione improvvisa, una folgorazione capace d’inchiodarlo al suo destino di creatura costantemente trasmigrante. Nondimeno, il trasalimento che egli ne riceve è sempre intenso, a volte parrebbe addirittura sul punto di fulminarlo. E’ solo allora, tuttavia, che il suo sentiero di colpo si rischiara, e Tommaso inizia a scorgere in lontananza i segni di una guerra terminata senza vincitori, a intravedere i resti del suo passato ammonticchiati alla rinfusa in un angolo dimenticato da tutti. Da tutti, salvo che da Tommaso stesso, che tenta disperatamente di recuperare – se non nella sua integrità almeno a frammenti – un altrimenti improbabile passato che potrebbe ricostruire la sua vita pietra su pietra. Gli è già successo – ma non può ricordarlo, il cuore, almeno per ora, marcia al massimo, lo sbattere stesso delle palpebre vibra all’unisono con la progressiva assuefazione dei suoi sensi a quel paesaggio i cui tratti, prima oscuri, gli divengono sempre più noti, presenti alla sua coscienza remota. Tutto l’essere di Tommaso cammina al ritmo dei segni che punteggiano la sua via come lucciole nel buio, segni che lo conducono verso una direzione precisa. O forse è soltanto una fantasticheria a cui lo lega il debito della sua perenne inquietudine quel penoso rimanere a mezz’aria, sospeso tra il piacere dell’acquiescenza e la voluttà dello slancio? Tommaso sa bene che quel suo stato non gli sarà mai congeniale ed egli ne soffrirà ancora, fin quasi all’esasperazione. Egli sa pure, però, che proprio in quel suo struggimento è racchiusa la chiave del suo domani. Un domani che Tommaso si ostina a presumere migliore di quanto lo sia il suo presente privo di qualunque magia, di quel tocco, ancorché fugace, di follia che lo renderebbe, se non altro, l’anticamera del sogno segreto che da sempre egli nutre. Oh, le forme che dapprima gli sfilavano dinanzi sbiadite, come gli appaiono più chiare adesso, quasi un interruttore nascosto le illumini dall’interno rendendole vive, consapevoli quanto almeno lo è lui, nell’istante in chi la china, da impervia, gradualmente diviene rettilinea per poi discendere piano, come un’onda sotto la cui scia spumosa si delinea il morbido profilo del corpo che fa tutt’uno con il mare! Tommaso segue quel profilo, gli pare addirittura di specchiarvisi dentro tra i riflessi cangianti dell’acqua, ci gioca, tira a indovinare quali siano i tratti più vicini alla sua immagine reale. Il suo sogno mette le ali, da implume nidiaceo si trasforma in uccello maturo, pronto a solcare i cieli, ad attraversare universi, a scavalcare barriere. E così soltanto il cammino di Tommaso acquista un senso, s’iscrive all’interno di una vicenda che travalica la sua storia individuale. Così soltanto, finalmente, egli può inspirare a pieni polmoni un’aria nuova, in cui i suoi gesti, i suoi pensieri, tutto di lui sembra muoversi con una disinvoltura e una levità sconosciute. Spinto da quell’aria, Tommaso calpesta il presente, l’occhio rivolto al futuro radioso da cui si sente ormai irresistibilmente attratto come da una potentissima calamita. Sarà dunque quella la sua città? Proprio quella, da cui un giorno ormai lontano Tommaso è partito, e la cui fisionomia inconfondibile ritorna adesso a rappresentarsi ai suoi sensi? Egli sa di non portare con sé alcun bagaglio, non ricorda d’aver viaggiato su alcun mezzo, si ritrova e basta in quel luogo, un viavai di persone gli scorre di fianco, lo sfondo dell’orizzonte è deturpato da orrendi palazzi inchiodati a un cielo plumbeo, gravido di pioggia. Il cemento impera, e, con il cemento, il ferro di viti e intelaiature, alti tralicci costeggiano il marciapiede proprio là dove poco prima correvano lunghi filari di tigli. Il volto di quella città è di colpo mutato, tutto adesso gli pare irriconoscibile, perfino i pensieri di Tommaso hanno cambiato direzione. Sfumare vorrebbe, come le forme incerte di quell’incerta ora del giorno, inabissata tra un passato ormai sepolto e un avvenire sempre più vago. Cerca così di muovere qualche passo, ed è con sua grande sorpresa che si accorge di essere diventato improvvisamente agile, quasi aereo, come se tutto il suo sangue affluisse di colpo alle gambe, spingendolo lontano da lì, da quel mondo sconosciuto verso il quale egli prova, adesso, un profondo e insopprimibile senso di disagio.
Giuseppe Ruggeri