Mentre tutto intorno evapora rimaniamo sulla spiaggia, io e Cristina, distesi sotto la “loggia” ad oziare dalle tre alle cinque del pomeriggio con occhi socchiusi, noncuranti se non di alzarci, quando non se ne può più, fare dieci passi e tuffarci in acqua, felici di avere solo per noi due l’ombra delle canne a darci riparo. Grazie alla loggia è possibile questo miracolo di sopravvivenza, questa trasgressione estiva per cittadini in fuga; solo grazie a questo spazio abusivamente coperto possiamo sentirci vivi nelle ore in cui saremmo, altrimenti, confusi nella luce come quelle sagome tremule distanti, le cui voci non riusciamo più a percepire. Ma ci va bene così. La chiamano loggia, qui, questa struttura di canne diffusa nelle nostre spiagge, messa su da miei parenti e amici che vivono a ridosso della spiaggia, al di là dei campi: loro scendono a mare giù dal mattino fino a mezzogiorno e, se tornano dopo pranzo, non avviene mai prima delle cinque del pomeriggio. Ecco perché noi due preferiamo queste ore ingrate: non ingombriamo né dobbiamo rispettare quei rituali che l’incontro dopo qualche tempo richiede: saluti, baci, tuo figlio che fa e così via…. Siamo solo noi, oggi, i figli non ci seguono più e quando lo fanno è per evitare casini. Anche io sono di qui, non sono nato ma ci appartengo a questa striscia di terra che avverto sempre ospitale, propria come questa dimora che ci accoglie, povera ma necessaria insieme, schietta. Ma, può capitare, che il sincronismo del ricambio nel bivacco non viene rispettato. E così mi ritrovo Leo, dopo anni, proprio lì seduto sotto il riparo; Leo che ha una vita lontana e che appena mi vede mi bacia e coi saluti inizia la solita menata dei ricordi, quando qui si era in pochi parenti, niente campeggi, persino nudi si faceva il bagno, gli ricordo, tanto chi ci guardava? Chi viveva qui si sfiancava nei giardini di bergamotto per il “barone” per 12 ore, così il mare lo frequentavamo solo figli e nipoti di chi faticava che, ostile, ci raccomandava di stare attenti, che non c’era riparo nell’acqua. Io ho sempre pensato invece che non c’era salvezza a rimanere lì a lavorare, ma non l’ho mai detto perché gli volevo troppo bene e non volevo che andassero via da li. La loro fatica misurava la mia felicità. Cugini, poi, se lo siamo realmente non ha importanza, perché la parentela la si riconosce nei nostri giro-vita, tutti uguali, espressione di pace, sugo con maccheroni, e carne di capra. Leo, però, me lo ricordo appena sposato, magro e giovanissimo, cugino dei miei cugini, forte come una roccia e con accento milanese, anche quando parlava in dialetto calabrese. E lo fa tuttora. Una vita di emigrante lo aveva portato con la famiglia dal Belgio ad uno dei paesini dell’hinterland milanese dove, a sentirlo, si faticava, si guadagnava, si scopava e poi… c’era il Milan. Cavalcava con i suoi furgoni sempre più grandi quelle terre come un pioniere, dandosi da fare per emanciparsi dalla acciaieria e forse dalla miniera belga dove suo padre è uscito vivo per miracolo. ‘Sto padroncino ce l’aveva fatta, e tra i suoi parenti qualcuno, negli anni, ha pensato di raggiungerlo. Ultimamente, però, avevo sentito delle sue fortune altalenanti e poi delle difficoltà sopraggiunte. Ma l’estate serve giusto per dimenticare le fatiche. Ora Leo ce l’ho davanti, qui sotto la loggia, insieme alla moglie e ad una coppia di loro conoscenti molto più giovani, terroni anche loro, a far fortuna al nord. Non gliene frega niente, a quei due, di com’era qui e così si cazzeggia un po’, ma avverto subito parole di rabbia, amare, confuse, come la voglia di venire a vivere giù appena possibile, ma solo quando le cose saranno migliori. Gli chiedo se devono migliorare per noi o per lui ‘ste cose e capisco che dei nostri veri problemi non ne sa niente Leo, emigrato di seconda generazione che, non avendone vissuto alcuna trasformazione, è fermo a un’idea di Calabria che non c’è più, che è nella sua testa. Si commuove al suono della tarantella ma non di fronte a un paesaggio corrotto, divorato ed eroso come queste coste: tutto questo, pensa, è avvenuto senza di noi e per questo non se ne fa una malattia né si chiede alcuna ragione, e, d’altronde nessuno lo ascolterebbe. Solo la moglie gli da retta e come sempre annuisce, invecchiata forse più di lui, macinata da un clima in un posto insopportabile, ma che mai abbandonerebbe. Con la crisi ha perso il lavoro in fabbrica e fa la badante. L’unica italiana, immagino. L’ombra delle canne ora è invitante. C’è un caldo insopportabile anche per le lucertole e per i grilli che hanno smesso di cantare e la fiumara è più secca che mai. Anche da campeggio poco distante hanno smesso di proporre musica e altre idiozie. Il vu cumprà che adesso si avvicina non ci vuole vendere niente, vuole solo sdraiarsi sotto la loggia, e lo fa urtando per caso, con la sua mercanzia, l’amico ospite, che vai a sapere fa il militare volontario in Afghanistan, e sfiora anche la visagista in Brianza, sua consorte. Le scuse dello straniero non bastano ai due. Sono inviperiti e stupiti per l’oltraggio e la strafottenza con la quale l’ “uomo nero” si sdraia ora, sfinito, al fresco. Ma come, manco lui ci ascolta … e poi come si permette, dicono, qui sotto la nostra capanna … Il nero viene da capanne più grandi e ben fatte, cerco di dire, qui invece non è di nessuno, è zona demaniale. Ma che cavolo dici, mi risponde Leo, sai quanto abbiamo speso per i materiali a metterla su? E la giornata di lavoro al sole, poi, dove la metti? Questo invece arriva così e se ne fotte… Non è per razzismo, ma due calci nel sedere a tutti questi … Ma come, un volontario che va in missione di pace per difendere popoli lontani, preciso…con un sorriso amaro…. Una cosa è qui, una cosa è li, qui è casa mia, dove rubano il lavoro, e non solo… Ricordo al parà che qui non è esattamente casa sua e che questo poveraccio non ci ruba neanche l’ombra, che ce n’è per tutti. Ma gli animi sono infuocati più della sabbia, tranne quello dello straniero che se ne strafotte, restituendoci un sorriso di cortesia che fa incazzare ancora di più i quattro veri beduini. La Lega, ecco risolto: sono tutti suoi elettori, i quattro del Suditalia e se ne vantano. Ma come, Leo, dico, com’è possibile, tuo padre un comunistone salvo per miracolo dalle miniere di Marcinelle e tu che fai ‘sti discorsi?….Finiti quei tempi, mio caro cugino (non lo sono mai stato) e poi noi non eravamo come questi accattoni, precisa orgoglioso. Non ho parole di fronte a tanta ottusità, ma cerco di capire ‘sti trapiantati in crisi con sintomi di rigetto. Sta di fatto che così, oramai, non si capisce più niente, le lingue si sono confuse proprio come quel dialetto con accento milanese che ho sempre deriso e che ora sembra invece presentare il conto. La crisi, ma che vuoi sapere tu, mi dice la moglie di Leo, mentre l’altra si guarda intorno e si tocca il costume mettendo bene in vista le unghie ricostruite. Immagino che ‘sti discorsi proposti agli altri indigeni, compresi i miei veri parenti, riescano a dividere gli animi, come avviene sotto questa loggia e in questo Paese oramai spaccato irrimediabilmente, dove la fortuna sembra decidere persino il giusto e l’ingiusto. Per un attimo penso che se si dovesse arrivare, come qualcuno inconsapevolmente auspica, ad una ipotetica guerra civile, saremmo su fronti opposti, io e Leo, nonostante i nostri giro-vita. Cosa dovrei fare a quel punto, combattere la mia gente, come questi quattro sradicati? Ne varrebbe la pena? E poi per chi? Per il “barone” di turno capace di mantenere queste terre “libere”? E’ un incubo o forse è il caldo che mi richiama a fare quei dieci passi per rigenerarmi in acqua. Il Mediterraneo dei veleni inizia qui con le nostre vite sospese tra indifferenza e sospetto, incapaci oramai di riconoscere anche una storia semplice dignitosa come è stata la nostra, fosse pur limitata a questo chilometroquadrato di terra e sabbia. Lontano un fischio e poi un urlo. Lo straniero pensa che è per lui, si alza e se ne va togliendoci dall’imbarazzo, ma è invece il richiamo per Leo e consorte: c’è da preparare la carne di capra per la sera, e la pentola aspetta. Leo e la moglie mi invitano alla grande abbuffata dai suoi e miei parenti, forse per farmi sentire io, ora, il vero ospite inatteso, come l’altro pellegrino che oramai è una sagoma nera distante. Declino l’invito e mi chiedo se appartengo ancora a questa striscia di terra e se bastano vecchi legami (o i ricordi) a fare comunità; e avverto invece che si può rimanere forestieri anche sotto una capanna come questa se non l’hai costruita insieme, e quanto sia duro lo sforzo, che ora provo, a venire fin qui nelle ore più ingrate, con l’alibi della fuga dalla città, per cercare cose che non ci sono più se non appunto nella mia testa che è uguale a quella di chi è dovuto scappare lontano, di chi è senzaterra. Hanno ripreso a suonare ad alto volume nel campeggio e grilli e cicale non si sentono più. E’ meglio andare, allora, ora che il sole è più basso e la sabbia è un tappeto caldo e vellutato. Roberto Bolano, vero poeta esule e fuggiasco diceva che la sua vera patria non era più il Cile ma erano i suoi figli; e Simone Weil, filosofa struggente del mio secolo, scriveva che la sola vera Patria è la Croce. Io non sono di qui, forse ci appartengo, o forse no, non me ne importa più tanto e me ne torno a casa da solo con lei, dove ci sono i nostri figli. La nostra croce. La sola delizia.
Rolando Iaria