È un giorno di festa il nostro ingresso nel mondo, generati non per restare isolati, concepiti non per una pura distrazione, sì, quel grido lanciato alla luce non è altro che un desiderio di partecipazione al vento del vivere. Tuttavia, il tempo delle macchine e del frenetico progresso fin dal nostro primo gemito ci ricorda di non cedere alle lusinghe del donare. In passato ciò che non conoscevamo non era oggetto di un feroce pregiudizio ma di una superficiale diffidenza nei confronti dell’ignoto. La paura è un sentimento che spesso viene associato alle persone ma quella più comune, che distorce la verità dell’uomo, si alimenta di superstizioni e fantasie. Oggi non è la paura del diverso, dell’altro che angoscia l’uomo “civile” ma il terrore di perdere ciò che ogni giorno per lui rappresenta una testimonianza del suo procedere. Si è qualcuno perché si ha qualcosa e non importa se futile o superflua, il tempo delle macchine ci dice che si deve avere senza tenere. I nostri passi sulla terra non devono trovare quel senso di appartenenza con il mondo ma trovare attraverso esso una soluzione che possa difendere un unico principio: il possesso. Tutti vogliono possedere: le cose, le persone, i sentimenti, il denaro, un lavoro … dobbiamo biasimare chi pensa in questo modo? Il punto non è il desiderio di una vita serena, ma gli effetti collaterali e la lenta caduta da quella partecipazione iniziale. Jean Jacques Rousseau afferma: Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!”[1]. Dunque, in gioco non sono i sentimenti, il sospetto verso l’altro – lo straniero – ma la tutela di quella cinta che abbiamo alzato a difesa di qualcosa che ci illudiamo di possedere. Quello che noi chiamiamo confine in realtà si chiama “sopruso”, senso di estraneità. Senza tenere nulla, ma agguantando solo per possedere, per nascondere, segniamo inequivocabilmente il nostro declino in una posizione miope e fragile. Oggi non sono il colore della pelle, gli indumenti, i nomi che ci spaventano; quello che cerchiamo di difendere è il nostro essere “civile”. Se il senso del vivere deve essere circoscritto al terreno di un “ghetto”, ridotto ad una condivisione autorizzata, allora cosa è veramente un uomo? E’ necessario un permesso per soggiornare nel mondo? Non abbiamo i mezzi per sostenere una vita dignitosa per tutti e questo dovrebbe giustificare le nostre azioni? Fingiamo di difendere un luogo che dichiariamo nostro e in verità non conosciamo neanche chi ci abita a fianco. Partecipiamo alla vita, siamo parte di un progetto condiviso dove non esistono divisioni se non all’interno di quella idea di possesso che viene propagandata dalla civiltà tecnologica. Pur di avere, di non rinunciare ai nostri orpelli siamo disposti a chiudere gli occhi di fronte a tutto, a vivere nel buio più profondo, a sbarrare la porta a chiave, con doppia mandata e in gran silenzio. Mentre qualcuno viaggia in posti esotici bevendo cocktail con ghiaccio altri invocano speranza dai propri simili, illudendosi di un riscatto che non arriverà mai se non a costi altissimi. La speranza in una “gabbia d’oro” è illusoria, riponiamola piuttosto in coloro che hanno ancora quel senso di appartenenza al mondo e quel desiderio vivo di condivisione del proprio essere. È un giorno di festa il nostro ingresso nel mondo quindi abbracciamoci forte intorno alla luce del vivere.
Francesco Colia
[1] Rousseau J. J. – Origine della disuguaglianza, trad. Giulio Preti, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, Milano, 1999, pag. 72