(Foto scattata da Marco Vacca – http://www.marcovacca.com/)
“Fermatevi. Dove fuggite alla vista di un uomo? Pensate forse che sia un nemico?… Questo è un infelice che arriva qui errante, bisogna averne cura. Stranieri e mendicanti vengono tutti da Zeus, ciò che ricevono, anche se poco, è gradito. Allo straniero offrite, ancelle, da mangiare e da bere, fatelo lavare nelle acque del fiume, al riparo dal vento”
Omero, Odissea, Libro VI (trad. it. Ciani)
Le recenti, massicce, ondate migratorie dai paesi nordafricani sconvolti dalla guerra e dalle rivoluzioni civili ripropongono all’attenzione di istituzioni, mass media e opinione pubblica la problematica dell’accoglienza, dell’ospitalità e del trattamento da offrire ai migranti. Nel contemporaneo mondo globalizzato, in cui le distanze sembrano annullarsi, in cui tutte le persone sono riconosciute come uguali proprio perché persone, titolari di diritti inviolabili a prescindere da nazionalità, cittadinanza o origine etnica, emergono, per l’ennesima volta nel gioco dei corsi e ricorsi storici, tensioni tra le contrapposte esigenze di garanzia dei diritti umani, da un lato, e di difesa e sicurezza nazionale, dall’altro. Si, perché nonostante le ripetute affermazioni di principio sul piano internazionale, relative ad una intrinseca uguaglianza tra tutti gli esseri umani, la figura dello straniero continua a suscitare nell’animo del “cittadino” sentimenti ambigui, anche a livello inconscio, tutti racchiusi in uno spettro che varia dal fascino alla diffidenza, o addirittura alla paura. Come del resto è sempre stato, per gli stranieri di tutte le epoche. In effetti, anche da un punto di vista etimologico, la parola latina hostis, che significava originariamente “straniero” andò via via assumendo il significato di “nemico”. E non deve stupire il fatto che essa abbia la stessa radice della parola hospes, cioè propriamente “ospite”. Eppure, nonostante questo naturale carico di ambiguità/ambivalenza che lo straniero ha sempre portato con sé, per gli antichi Greci, le regole della xenia, ossia quelle norme anche non scritte relative al rapporto con lo straniero/ospite, avevano carattere sacro: la loro violazione era addirittura equiparata ad un crimine contro le divinità o contro i genitori; lo straniero era un ospite a cui riservare i massimi onori, secondo una sorta di ideale principio di reciprocità: devo accogliere lo straniero allo stesso modo in cui vorrei essere accolto io trovandomi in terra straniera. Anche perché, nella mentalità e nella religiosità greca, dietro le sembianze di un pellegrino poteva benissimo celarsi un dio o una dea di passaggio per quei luoghi, magari proprio con l’intento di verificare se le leggi sull’ospitalità venissero comunemente rispettate. Pure Gesù, sebbene usando parole diverse, diceva qualcosa di molto simile. Ma in questa prosaica età contemporanea, in cui il mito e l’inconscio hanno decisamente ceduto il passo alla razionalità, soprattutto nella cosiddetta società civile occidentale, pare proprio strano che qualcuno possa intravedere nello straniero il barlume della divinità da rispettare e da onorare. Per il giurista, poi, la valutazione dei fatti del mondo deve essere il più possibile scevra da convinzioni, influenze e retaggi religiosi. Ed è proprio il punto di vista giuridico che ci interessa prendere in considerazione in questa particolare sede: cosa è lo straniero per il diritto oggi?
Non esiste una legge che definisca l’essenza dello straniero: sostanzialmente, oggi come ieri, dato un contesto sociale di riferimento, straniero è colui che non è cittadino, pertanto sottoposto ad un regime giuridico differenziato rispetto a chi invece alla comunità appartiene, per nascita o per successiva acquisizione.
Sul piano del diritto internazionale pattizio (dei trattati, per intenderci) la condizione dello straniero viene riconosciuta e tutelata in numerose convenzioni sui diritti umani, che sono riconosciuti a tutte le persone, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione: il principio fondamentale e ricorrente è quello del divieto di discriminazione tra stranieri e cittadini. A fronte di ciò, e qui ci spostiamo al diritto consuetudinario, è generalmente riconosciuta ai singoli Stati territoriali la libertà di determinare lo specifico regime giuridico interno relativo al trattamento dello straniero. In Italia, per esempio, la norma costituzionale di riferimento è l’art. 10, ai sensi del qualela condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità alle norme e ai trattati internazionali. Lo stesso art. 10 garantisce inoltre il diritto di asilo nel territorio della Repubblica allo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, e vieta l’estradizione, ossia la consegna forzata dello straniero al paese d’origine, per reati politici. L’altra norma di carattere generale, seppur non di rango costituzionale, rilevante in tema di stranieri, è quella contenuta nell’art. 16 delle Disposizioni sulla legge in generale, la quale prevede che lo straniero, inteso sia come persona fisica che come persona giuridica, è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità e salve le disposizioni contenute in leggi speciali. Sul tema, importantissimi sono stati fino ad oggi i ripetuti interventi della Corte Costituzionale che, riconoscendo espressamente agli stranieri la titolarità dei diritti inviolabili della persona umana, ha affidato al principio di ragionevolezza il ruolo di guida per l’azione del legislatore ordinario, al quale spetta in concreto la definizione del trattamento dello straniero. In altre parole, è possibile e lecito prevedere statuti giuridici differenziati per cittadini italiani e stranieri, ma queste differenziazioni non devono essere arbitrarie bensì ragionevoli, ossia giustificate dalla sostanziale diversità delle esigenze da tutelare.
Abbiamo dunque detto che straniero è chi non è cittadino. Senonché possiamo tranquillamente affermare che lo stesso concetto di “cittadino” è oggi differente rispetto al passato, e dunque che il confine tra l’essere cittadino e l’essere straniero si è idealmente spostato. Quanto meno per noi europei. Il graduale sviluppo dell’Unione Europea ha infatti condotto alla creazione di uno status di cittadino europeo, riconosciuto a chiunque abbia la nazionalità di uno dei paesi appartenenti all’Unione stessa. Questa particolare condizione, che integra, senza sostituirla, la cittadinanza del paese di origine, consente l’esercizio di determinati diritti, primo fra tutti la libertà di circolazione e soggiorno su tutto il territorio dell’Unione. I cittadini europei hanno inoltre diritto alla protezione diplomatica e consolare al di fuori dell’UE da parte di qualsiasi stato membro, hanno diritto di votare ed essere eletti alle elezioni municipali ed europee, di presentare ricorso al Mediatore europeo e di presentare, in quanto cittadini, proposte legislative. In realtà, la creazione di questa forma di cittadinanza “sovranazionale” rappresenta solo un momento di un più ampio progetto di sviluppo e di cooperazione tra Stati europei, tutt’oggi in itinere, volto alla realizzazione, nell’ambito dell’Unione, di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia, con gli obiettivi dichiarati di assicurare la libera circolazione delle persone e di garantire ai cittadini un elevato livello di protezione. Lo strumento principale per la creazione di questo spazio comune è l’eliminazione delle frontiere interne, sostituite da un’unica frontiera esterna. In particolare, l’attuazione della libera circolazione delle persone si è iniziata a realizzare da quando nel 1985 è stato firmato l’accordo di Schengen, accordo che nel 1990 è stato trasformato in convenzione: nello “spazio Schengen” sono aboliti i controlli alle frontiere tra i paesi partecipanti, e oggi lo stesso spazio è esteso a quasi tutti i paesi membri dell’UE ed anche ad alcuni paesi che dell’Unione non fanno parte. Ovviamente, la creazione di uno spazio libero interno implica l’adozione di politiche comuni di gestione delle frontiere esterne, di regolamentazione dei fenomeni migratori, e di lotta contro la criminalità internazionale.
In questo contesto si inquadra la normativa attualmente vigente in Italia in tema di stranieri, che si compone di tutta una serie di interventi legislativi che disciplinano il fenomeno dell’immigrazione in conformità agli indirizzi elaborati in sede comunitaria. Interventi spesso connotati dal carattere dell’emergenzialità, e talvolta anche censurati in sede di legittimità dalla Corte Costituzionale. Segnaliamo per la loro importanza solo il Testo unico sull’immigrazione, decreto legislativo n. 286 del 1998, e la legge n. 189 del 2002, cosiddetta legge Bossi-Fini. Le attuali politiche migratorie poste in essere dal nostro governo tendono a contrastare l’immigrazione clandestina a garanzia dell’ordine e della sicurezza pubblica, per un verso, e a favorire l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati “regolari”, per altro verso. Sotto il primo profilo, sono previsti meccanismi di espulsione, respingimento e accompagnamento alla frontiera, oltre a sanzioni penali per reati legati all’immigrazione clandestina. La legge Bossi Fini del 2002 è intervenuta, in senso restrittivo per gli stranieri, proprio su questi particolari aspetti del fenomeno migratorio. Sotto il diverso profilo dell’accoglienza e dell’integrazione dell’immigrato in regola, l’Italia si dichiara impegnata nella realizzazione di iniziative volte alla formazione di una società multirazziale in cui cittadini e stranieri possano convivere pacificamente, attraverso la reciproca conoscenza, il rispetto e la valorizzazione delle diversità. In questo senso, un testo molto significativo, almeno sul piano dei principi, è la Carta dei valori della cittadinanza e dell’immigrazione adottata dal Ministero dell’Interno nel 2006.
Ma l’affermazione di valori, di principi, di diritti umani dello straniero come immigrato e come migrante, la coesistenza di cittadinanze nazionali e sovranazionali, in altri termini, le moderne regole della xenia, non sembrano trovare una soddisfacente corrispondenza nella realtà dei fatti. E’ l’inevitabile gap tra fatto e diritto che in questa specifica materia si manifesta con una forte carica di drammaticità. Il sistema mostra una fragilità di fondo, come è testimoniato dalle vicende degli ultimi giorni: i disagi nell’accogliere le ondate di profughi, la dichiarata assenza di adeguati piani d’azione, la affermata necessità di rivedere gli accordi di Schengen nel senso della creazione di più efficaci barriere all’ingresso, le striscianti riserve mentali nei confronti di un’apertura dello stesso spazio Schengen ai paesi dell’est europeo. Così, le esigenze di sicurezza e difesa nazionale sembrano oggi prevalere su quel sentimento di ospitalità verso chi si trova nella spiacevole condizione di dover chiedere asilo e rifugio, spesso contro la propria volontà. Nonostante le nobili affermazioni di principio, lo straniero viene ancora percepito e trattato come hostis piuttosto che come hospes, e l’idea di “cittadino del mondo” appare poco più che una romantica utopia. Non si vuole negare l’esistenza di concrete difficoltà organizzative in nome di un idealismo fine a se stesso; ma gli strumenti per la cooperazione esistono, forse quello che manca è la reale volontà di indirizzare gli sforzi nel senso della disponibilità nei confronti dell’altro e delle sue difficoltà, perché ciò significa inevitabilmente rinunciare a un po’ del proprio.
Stefano Marino
Articolo tratto dal n° 2 della Rivista FilosofiperCaso La Rivista