Da sempre il poeta ricerca la parola, l’onoma, per dirla con Caproni, l’essenzialità per esprimere in modo completo ed espressivo la propria esigenza del dire; nel tentativo di fare questo si è spesso ritrovato dinnanzi ad una impossibilità, a tal punto da balbettare, come Dante al vertice del Paradiso.
Questo tentativo però non è solo del poeta, ma dell’intera umanità che si ritrova, da sempre, ad avere un’esigenza di comunicabilità con l’altro uomo, con i propri morti e con il divino; non è paradossale dire ciò in quest’epoca che viene definita l’epoca della comunicazione, anzi è paradigmatico.
Il poeta è alla ricerca di una lingua che elabori la parola, non solo con il fine oraziano del labor limae, ma soprattutto per cercare di giungere ad una lingua che non trasmetta un sentimento di esilio, tipico dell’uomo che viene descritto come un Ulisse o un ebreo errante.
Fin dalla Genesi l’uomo è consapevole che “i suoi discendenti saranno stranieri in un paese non loro” (Gn. 15,13); saranno quindi in esilio. La parola galuth in ebraico significa appunto esilio. Dobbiamo affrontare un destino ineluttabile: sin dall’inizio si ha dinnanzi a sé l’errare della diaspora, l’esodo verso la Terra promessa, si è sempre in cerca dell’Eldorado, del Paradiso terrestre, dell’isola di Utopia e della Città del sole e anche nel secolo scorso, quando si dichiarava il nichilismo che elimina la dimensione trascendentale che potevano avere i luoghi prima elencati a favore di una realizzazione immanente dell’eschaton, rimane comunque una volontà di uscire dalla dimensione di esiliati. Quindi l’esilio è una caratteristica intrinseca all’umano, è una condizione che porta con sé la speranza del ritorno ad una situazione beata ed originaria, una speranza nel passato direbbe Ernst Bloch.
Ma cos’è questo esilio?
È l’esilio dalla patria, la Heimat che si cerca attraverso la lingua; l’uomo si illude che non avendo più la Heimat almeno abbia un Heim, un rifugio e un asilo. La Arendt afferma proprio che resta soltanto la lingua materna come rifugio. E Celan più cautamente spera lo stesso: “La lingua, nonostante tutto, rimase non perduta”. Ma guardando bene nessuno di loro però si disillude ed afferma che la lingua si è perduta da tempo, da quando si è nell’esilio dalla terra. È perduta insomma la lingua come “dimora dell’essere” e l’uomo si ritrova sprachlos, senza lingua, poiché è heimatlos, senza patria. Come vuole Heidegger, la patria è nel linguaggio, in quanto “dimora dell’essere”, è nel linguaggio della parola originaria, la quale si presentava come parola poetica; ma se tale patria non si ha, è perduta anche la parola poetica.
L’uomo tenta, e in modo particolare il poeta, di trovare finalmente un asilo nella lingua, di ritrovare la parola poetica, poiché è consapevole del fatto che trovata la patria della lingua, trova anche la patria della terra. Il luogo della lingua che dovrebbe essere familiare, appare da troppo tempo estraneo e la lingua che ognuno ha, come ci dice Derrida, non è la propria. La lingua che si usa non è stata scelta, ci è stata tramandata e il poeta si affanna per possedere una lingua propria, dove possa intimamente identificarsi, nel senso di identificarsi con la lingua nella lingua; il poeta cerca di usare con tranquillità il pronome Io in una lingua sua e posseduta, cerca di poter uscire dall’uso impersonale. Questa ricerca che deve essere compiuta, di identificare se stessi è portata avanti anche perché se completata vuol dire poter comunicare con l’altro. La mancanza di una propria lingua, porta inevitabilmente ad un linguaggio, come afferma Celan, divenuto “pane” duro e raffermo, che si tenta di “masticare con denti di scrittura”.
Antonio Melillo
Non potrei essere più d’accordo:
“l’esilio è una caratteristica intrinseca all’umano, è una condizione che porta con sé la speranza del ritorno ad una situazione beata ed originaria, una speranza nel passato”
e anche qui:
“Questa ricerca che deve essere compiuta, di identificare se stessi è portata avanti anche perché se completata vuol dire poter comunicare con l’altro”
Proprio un bell’articolo grazie Antonio Melillo e grazie Filosofi per Caso!!