Tante cose non ricordiamo, perse ormai nel passato, lontane come pezzi di una nave affondata. Ci sono tante prime volte che ricordiamo, non il primo pianto, il primo senso di abbandono, il primo morso della fame eppure queste prime si dileguano con estrema facilità nel buio del passato. I relitti del trascorso vagano senza una meta perché andare alla deriva è il percorso delle volte che si susseguono. Trovare forze inaspettate, rialzare dalle macerie un senso soffocato dalle parole, dalle fughe concesse e mai represse. Eppure quelle prime volte sono lì vicino a noi come piccoli soldatini da guerra, in fila orizzontale per difendere un appostamento desolato e abbandonato alla polvere. Verrà sempre un dopo, un senno che non potrà capire cosa significhi quella prima sbucciatura, quel primo sorriso d’imbarazzo, quello scontro di corpi stanchi delle loro posizioni. Verrà anche un dopo, comprensivo, risolutore, accogliente che potrà capire cosa significhi quel dolore, quella prima smorfia di disappunto, quell’unione di pensieri vivi del loro galleggiare. Formule irrazionali si annodano tra il primo e il dopo, tramano in nostra presenza, progettano figure che sappiamo riconoscere ma che non vogliamo accettare. Così il luogo dell’ascolto resta un rumore senza suoni, una luce senza colori, un mare senz’acqua perché il distacco più straziante non è quello rivolto al passato ma al futuro. Camminare scalzi, con passi lenti e leggeri, vestiti di presenza, ammantati di un linguaggio che si ciba di chiacchiere, di un dopo che paventa un’indipendenza troppo fragile. Il primo è un urlo sopito su un fondo scuro, rivestito di assenza, spoglio di lettere che non ricordano il dove, di percorsi troppo stretti e duri da comprendere. La luce entra sempre in un spazio buio, le parole nel silenzio profondo, le emozioni nell’imperfezione del vivere e il dopo, questo ultimo tentativo, nel nostro primo senso di abbandono.
Francesco Colia