Blade Runner è considerato un cult della fantascienza e nonostante il tempo trascorso – parliamo del 1982 – quest’opera cinematografica non perde il suo fascino visivo e il suo innegabile coinvolgimento emotivo. Senza entrare troppo nei dettagli (ricordiamo il regista Ridley Scott, l’attore Harrison Ford, le musiche dei Vangelis, un’impeccabile fotografia e una sceneggiatura che poggia su un grandissimo autore come Philip Kindred Dick) lasciamo che sia il film – del quale non approfondirò volutamente la trama perché siate direttamente voi a provare il gusto di “vedere” quanto suggerito – ad accompagnarci nella riflessione. Gli spunti offerti sono incredibilmente tanti ma in questa sede mi dedicherò solo ad uno di essi, consapevole di proporvi appena un’angolazione …
Il concetto di morte come viene “assorbito” dall’uomo?
Il dialogo tra Roy Batty (il replicante) e Eldon Tyrell (il suo ideatore) è emblematico in tal senso:
Tyrell: Quale sarebbe il tuo problema?
Roy: La morte
Tyrell: La morte … beh questo temo sia un po’ fuori della mia giurisdizione.
Roy: Io voglio più vita, padre!
Nonostante tutti i nostri tentativi per dimenticare un momento così importante e triste della nostra esistenza, il pensiero della morte non ci abbandona mai, anzi, più ci avviciniamo ad essa più ne veniamo terrorizzati. Inutile far finta di niente o sminuire, la morte ci spaventa e disorienta. È chiaro che l’età e il nostro stato fisico influiscono non poco sul nostro pensiero.
Perché la morte sarebbe un problema?
La risposta più banale e semplice è quella legata alla durata, siamo destinati a terminare il nostro cammino quindi qual è il senso della nostra vita se tutto dovrà finire? Dunque, questo è un problema; un problema che ci suscita illusioni perché nessun dio o medicina terrestre potrà rendere la nostra vita terrena infinita.
Chiediamo aiuto ad un dio?
“Io voglio più vita, padre!”
L’appello di Roy Batty viene rivolto al suo creatore perché gli conceda altro tempo, ma la sua vita (come la nostra) è concepita per esaurirsi, questa è la “giurisdizione” nella quale agiamo. Il nostro tempo è sufficiente per giustificare un’esistenza? Il tempo sembra non bastare mai perché la storia ci ha insegnato che il ciclo della vita è stato tramandato per continuare nel futuro e noi non vogliamo essere assenti. Paura del dolore? Forse la vecchiaia e le malattie possono essere associate alla sofferenza, ma sicuramente non la morte. Dunque, qual è il vero motivo che ci tiene legati alla vita terrena? Gli affetti, le emozioni, le persone. Il desiderio di immortalità è legato alle relazioni che abbiamo con i nostri simili e il mondo. Non vogliamo abbandonare la vita perché non vogliamo lasciare i nostri affetti. Ogni nostra impresa, buona o cattiva (Roy dirà a Tyrell: “Ho fatto delle cose discutibili, cose per cui il dio della biomeccanica non ti farebbe entrare in paradiso” …) si scioglie come un cubetto di ghiaccio nel deserto di fronte a quell’imperativo che ci impone di abbandonare il vero paradiso, il mondo …
Non crogioliamoci sull’idea dell’aldilà, il vero “paradiso” si trova nel mondo e a dispetto di tutte le nostre interpretazioni ultraterrene ogni eden è edificato sulla parola dell’uomo. È l’uomo che reclama più vita perché non c’è garanzia oltre la morte, non ci sono ricordi, non ci sono amori che possano ardere al di là del tempo concesso. L’uomo è la misura di se stesso e di ogni dio, l’uomo della biomeccanica regola la sua esistenza per vivere al meglio il proprio tempo. Il monito di Tyrell è eloquente: “La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo. E tu hai sempre bruciato la tua candela da due parti, Roy”. Quello che afferma Tyrell non è rivolto al replicante Roy, una macchina umana, ma all’uomo. L’uomo è l’unico essere in grado di fare cose straordinarie, è una “macchina” meravigliosa capace di splendere più di ogni altra creatura, ma come tutti gli essere abitanti del mondo deve terminare il suo viaggio tra le braccia della morte. Ogni cosa è umanizzata dall’uomo, anche un ipotetico paradiso, quindi non c’è nessuna scorciatoia che possa concederci più tempo.
Come dirà Tyrell: “Più umano dell’umano è il nostro slogan”, questo è il messaggio che l’uomo ha imposto al mondo. Pertanto, la morte non può che essere respinta, rifiutata perché non può concederci altro che un addio.
Dobbiamo piangere al nostro fatale destino?
Il senso della morte si nasconde proprio nella vita. Il vero splendore si nasconde nelle rel-azioni con il contenitore-mondo: ogni occhio che vede, ogni respiro che soffia è documentato dalla vita di ognuno. La nostra vita non andrà persa con noi, finiremo il nostro viaggio ma non tutto sarà perduto perché l’uomo è stato concepito per “risorgere”, con un’altra identità, con un altro nome ma con la stessa matrice. Per questo le parole note a tutti noi di Roy: “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannahäuser. E tutti quei momenti andranno perduti come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”, non possono essere un motivo sufficiente per piangere.
Le lacrime di Roy sono le lacrime di un corpo-macchina che sta abbandonando l’esperienza più bella che possa esistere, la vita, e quelle immagini andranno perse per lui ma torneranno alla vista di un altro. Il desiderio di più vita è un desiderio egoistico di una creatura che sa con estremo dolore che dovrà abbandonare il luogo dove ha vissuto tutta la sua esistenza: il mondo è la madre delle sue emozioni e questo sentimento (la paura di morire) lo disorienta, lo terrorizza al tal punto da lasciarlo in completa solitudine. Tuttavia, il film nella versione Domestic Cut aggiunge altro. Deckard dirà alla conclusione dello scontro-salvezza con Roy: “Io non so perché mi salvò la vita, forse in quegli ultimi momenti amava la vita più di quanto l’avesse mai amata. Non solo la sua vita: la vita di chiunque, la mia vita. Tutto ciò che volevano erano le risposte che noi tutti vogliamo: da dove vengo? Dove vado? Quanto mi resta ancora? Non ho potuto far altro che restare lì e guardarlo morire.”
Lasciare una vita per la vita. Il vero segreto per accettare una conclusione è riconoscere la bellezza del progetto. Ognuno di noi prima o poi si è fatto e si farà le stesse domande: “da dove vengo? dove vado? quanto mi resta ancora?” eppure nonostante la loro lacerante disattesa continuiamo ad andare avanti perché le risposte non potranno sconfessare un dono così bello, la vita.
Francesco Colia