
Estratto dall’Introduzione
«Se uno è convinto di essere “contro” Heidegger – o anche se si crede semplicemente di essergli “favorevole” – si renderebbe ridicolo. Non è così semplice passare davanti al pensiero», scrive Gadamer a proposito delle controverse interpretazioni e giudizi sul pensiero di Heidegger.
La vastità delle tematiche che emergono dalla sua riflessione si radicano tutte intorno ad un’unica domanda: come può l’uomo, un essere finito, mortale, consegnato nell’orizzonte del tempo, comprendere se stesso (l’essere dell’esserci) e il mondo che abita non come essere della mancanza ma facendo della sua propria finitezza il punto di forza del suo essere, del suo esistere, del suo fare? Se si vuole, questa stessa domanda può essere flessa in altri molteplici interrogativi: come può inverare la sua propria vita attraverso un esistere autentico? Come può far sì che le sue molteplici capacità non si trasformino in maglie pericolose che riducano la sua libertà? Come può questo stesso essere recuperare un senso sacro del mondo in un’epoca che vive nella povertà? Cosa ha da dire la filosofia a questo uomo?
Ogni declinazione della domanda sul senso del Dasein è un angolo di mondo che Heidegger ci invita a comprendere per poterlo abitare. Con la sua filosofia Heidegger ha voltato le spalle alla coscienza dell’idealismo tedesco, senza ricadere nel positivismo, in direzione dell’effettività dell’esistere dell’uomo, dell’uomo nudo nella sua esistenza finita, l’uomo che esiste prima di ogni costruzione metafisica. L’esserci è posto sempre come mio “esserci”, alla propria esistenza; l’esserci heideggeriano non cede il passo all’io generico di cartesiana provenienza, ma si radica nel terreno del “qui e ora”: egli è il suo “qui e ora”, cioè il proprio tempo e il proprio spazio.
Attuali sono le riflessioni del filosofo sulla tecnica e sul dominio tecnico–scientifico del mondo; necessaria la nostra riflessione intorno ad esse. Fresche sono le sue pagine su Hebel, non solo un’occasione filosofica per parlare del linguaggio e della poesia, ma soprattutto per capire il pericolo dell’energia atomica. Significative le sue parole intorno all’analisi della nostra humanitas e dell’esigenza di pensare ad un’etica originaria; inderogabile per noi chiedersi in che modo porre in atto tale necessità. Imprescindibile la sua analisi sulle strutture dell’esistenza dell’uomo e ricca di senso l’interrogazione che continuamente i suoi scritti ci pongono intorno al nostro essere–nel–mondo. […]
La fuga dal pensiero continua ad essere uno dei signa temporum che caratterizzano il nostro oggi: le esigenze della produttività tecnica ed economica non si coniugano con i tempi della meditazione filosofica; le necessità di un sistema che corre all’impazzata verso un “dove” sempre più spostato avanti – un “avanti” che slitta continuamente in direzione di un “non si sa cosa” – non attendono i tempi della maturazione dello spirito, perché l’uomo deve produrre, deve fare e non ha tempo per essere. È in questo orizzonte che si assiste anche ad una sospensione dell’etica, quale effetto della fuga dal pensare: «Il pensiero agisce in quanto pensa. Questo agire è probabilmente il più semplice e nello stesso tempo il più alto, in quanto riguarda il riferimento dell’essere all’uomo». […] Il senso dell’agire è il senso della nostra apertura al mondo e agli altri, è il senso della relazione che ci fa essere con gli altri. Ogni domanda sul senso dell’agire è un esercizio del pensare: l’interrogazione intorno al senso della condotta dell’uomo è una declinazione dell’ontologia. «L’uomo che non è più né il “figlio di Dio”, né il “fine della natura”, né il “soggetto della storia” [. . . ] è l’esistente in cui l’essere si espone come fare senso [. . . ]. L’uomo non è più il significato del senso [. . . ] ma è il suo significante [. . . ] perché ne indica e ne apre il compito».
Francesca Brencio