Questo cortometraggio dell’olandese Michael Dudok, non a torto considerato il migliore del millennio, ci fa cogliere una dimensione poetica fatta di silenzi: la parola qui tace e la vita diventa nella semplicità dei gesti, carne, sostanza che penetra l’anima fino alla commozione.
L’intero corto è attraversato da una musica che segue nel ritmo le stagioni della vita e la bicicletta sembra esserne il simbolo: incerta alle gambe del bambino, corre l’entusiasmo della giovinezza, si carica di responsabilità nella maturità ed infine stanca si lascia cadere sull’erba, non reggendosi più sul cavalletto.
Padre e figlia raccontano qualcosa che supera il loro rapporto – quell’intimo indissolubile legame che ci fa essere con chi amiamo oltre la morte ed oserei dire a suo dispetto – essi cantano l’intero corso della vita alla luce degli affetti, di quei legami che soli sono capaci di renderla una “ruota” unica ed indicibilmente preziosa nella sua fragilità.
Michael Dudok ci descrive con delle semplici passeggiate in pianura (e qualche salita …) l’esistenza, mantenendo però un riferimento fisso allo sguardo, in direzione del quale guarda e fa guardare e che paradossalmente rivela il senso dell’intero percorso: il luogo dell’assenza una volta attraversato diventa spazio dell’incontro, del compimento dell’attesa che si appaga nella tenerezza di un abbraccio.
Cos’è la vita in fondo se non una poesia? La figlia che guarda verso il padre è l’umanità che trova in se stessa la strada percorribile di un sogno.
Antonella Foderaro