
Estratto dalla Premessa
Arte sensibile o sovrasensibile? Raffinato prodotto della corporeità o paradigmatico linguaggio metafisico? Il dilemma attraversa come un fiume carsico l’intera riflessione sulla musica; e lo fa trovando posto, in vesti e sembianze diverse, in contesti storici e culturali anche distanti tra essi.
Le ragioni di tale opposizione interpretativa sul significato del fenomeno sonoro sono molteplici, certo, ma forse riconducibili a due: il carattere aereo, sfuggente, quasi impalpabile e irreale del suono – che scompare nel momento stesso in cui sorge – unitamente ad un’oggettività a sè stante e all’apparente autorefernzialità del linguaggio musicale, che sembra non avere alcun appiglio alla realtà ‘esterna’, da un lato; l’esigenza di garantire una dignità ‘concreta’ ed empiricamente giustificata alla musica stessa, evitando – sotto l’egida di una forte fiducia nel sapere di una scienza intesa nella sua formulazione ‘classica’, di matrice galileiano-newtoniana, prima, e positivista poi – di cedere a sovrabbondanze immaginative e romanticheggianti, simili a quelle di chi, come afferma John Ruskin, rimane vittima della pathetic fallacy.
Sulla scorta di tale constatazione e basandosi sull’ipotesi che il fenomeno musicale può costituire, tra l’altro, anche un terreno per rivisitare la vexata quaestio del rapporto mente-corpo (e di quello tra soggeto e oggetto) il presente lavoro intende indagare in quali termini si è parlato – ed è oggi possibile parlare – di una relazione tra suono e immaterialità e in quale modo un’arte come la musica, che, comunque, si serve di materia e fisicità per venire all’essere (dalla natura fisica del suono al materiale di cui sono fatti gli strumenti, dalla carta e dall’inchiostro con cui viene scritta alla corporeità degli interpreti, per non parlare della sua riproducibilità tecnica), è stata messa in relazione – e può, eventualmente, ancora essere messa in relazione – con immaterialità e spiritualità.
Cesare Natoli