(Immagine Internet)
Questa settimana mi sono chiesto quale parola sarebbe risultata più gradita al tuo sentire e la cosa mi ha arrovellato per tutte le notti, dall’ultima lettera. Non è facile per me immaginare una parola che, al pari di un brano musicale, possa risultare gradita, più gradita di altre. All’ascolto della musica ci hanno abituati, fin dai giorni della scuola. Per diletto o per interesse culturale ci dedichiamo ad essa e riusciamo a classificare ciò che ascoltiamo, riuscendo a stabilire quali brani riescono ad evocare le nostre migliori sensazioni, a rilassarci o a stimolarci.
Con le parole questo non accade. Le usiamo per esprimerci, non per diletto. Pochi di noi hanno la fortuna di percepire fino in fondo la loro musicalità. Forse solo i poeti. Essi sono il retaggio di uno stato evolutivo che non ha trovato sbocchi, una terra di mezzo tra gli oceani dell’evoluzione dell’uomo. Sono sopravvissuti.
A cosa serve, infatti, la poesia?
Essa rimane come mediazione tra la perfezione alla quale aspiriamo e la limitazione del nostro essere uomini. Una dimensione della transizione dall’umano al divino, dal soggetto che scrive all’oggetto dell’ispirazione.
Nel tuo caso non ho potuto trovare altra parola. Qualunque altra mi sarebbe sembrata non adatta. Sento una immediata coincidenza tra il pensiero di te e quella parola, una naturale inclinazione a confondere le due cose, la possibilità di usare quella parola come una icona della tua presenza. Non ho mai avuto la capacità di creare concetti particolarmente evoluti, ma riesco a sentire il bisogno della tua persona. Senza che abbia un nome, a prescindere dalla stessa esistenza. Fino a che sarò qui è l’idea ad essermi vitale, un tramite con la realtà che si crea attraverso ogni parola che immagino leggerai, ogni frase sulla quale ti interrogherai.
Queste lettere sono per me un viatico attraverso le mura che mi circondano.
Come quando, da ragazzo, nei pomeriggi d’estate, mi divertivo ad osservare, per ore, la polvere sospesa nella luce del sole che penetrava dalle fessure delle persiane. Un fascio di luce solida, dotata di corporeità che teneva uniti il mondo esterno e le mura della casa, quasi che così si sostenessero a vicenda. Ora io sono come un vecchio muro della casa, disseminato di crepe che si sovrappongono disordinatamente e tu, al pari del fascio di luce, l’emblema del mondo che ho lasciato di fuori. Ciò a cui posso rivolgere il pensiero per mantenere viva l’immagine della realtà, la medicina, la terapia. Pensarti mi aiuta a sperare di guarire.
Che strana sceneggiatura che ha la vita.
Le vicende, tutta la trama, a volte, scompaiono rispetto al divenire della scena. Ora qui, per me, l’attesa diventa quasi dolce trastullo se ciò che mi accompagna è questo pensiero di te, una cura piacevole. Non solo perché tende ad eliminare il disturbo, ma proprio perché essa, di per sé, risulta estremamente gradevole. Quasi da meritare lo stato di sofferenza in cui sono caduto, quasi da invocare altri malanni, se questa è la cura.
Ho frugato fra tutte
le mie parole
cercando proprio quella
che vorresti sentire.
Ho confrontato
e scartato,
recuperato, ricordato.
Ho rubato tra quelle
trovate da altri,
scolpite nei libri.
Ho inventato
suoni nuovi e diversi.
Sono rimasto, poi,
esausto a guardarti
e all’improvviso
m’è tornata alla mente
la parola amore.
Solo quella.
Solo quella userò per te. Dal momento che ti è capitato tanto inesperto cantore, così poco dotato nell’arte della parola, povero di termini e di linguaggio, dovrai fartela bastare. Di più non potrei, essendo essa già il mio tutto e non rimanendomi alcuna altra risorsa che il pensiero di avertela dedicata.
Prendila, dunque, nell’orgoglio del tuo ruolo nei miei pensieri, il contrappunto letterario di tante figure femminili che hanno avuto un nome.
Sarai musa per umili versi, flebili lamenti o urla rabbiose elevati alla divinità del silenzio, la quale non vuole che io abbia una voce.
Per questa mia mente che corre al di sopra delle cose del mondo, senza posa, nel timore di non riuscire a vedere tutto ciò che anela, per questo spirito, trafelato per il suo vagabondare frenetico, questi poveri versi sono come un momento di calma, una pausa di serenità, quale tana per un animale ferito, frescura e riparo, buio e difesa.
In essi mi rifugio per ritrovare una parte di me che non ha modo di esistere, che non sa reclamare i propri diritti e che soccombe alle pulsioni cerebrali. Tanto quanto le piccole cose possono essere più importanti, se rare, così questi pensieri, dedicati a te, sono come gioielli affioranti in una palude di fango. E tu, sia pure inconsapevole,
la luce che consente di avvistarli, dando loro possibilità di rilucere, acqua di fonte che li terge e rimuove la coltre imposta da tanti anni di pensieri oscuri.
Le parole che ti dedico sono per me come sorsi di assenzio.
Pasquale Esposito
Tratto da Come pagina bianca, Aletti Editore
Ci vorrebbe l’energia e la capacita’ per andare oltre queste lettere, scrivere altre storie, immaginare un diverso domani. Per ora grazie per averlo riproposto.
Molto, molto bello. Una penna così troverà sempre una pagina bianca da amare ed alla quale affidarsi, confidarsi per restituire a chi legge la capacità di sognare.