Abitare l’assenza
Non è necessario essere filosofi per sapere cosa sia l’assenza, tutti, fin da piccoli ne facciamo esperienza.
Quanto abbiamo pianto il primo giorno di asilo quando, nostro malgrado, siamo stati costretti a lasciare le braccia rassicuranti dei genitori? O quando una partenza ci ha interrotti per giorni, mesi, anni? Forse per questo motivo siamo soliti associare l’assenza alla distanza, come se qualcosa si frapponesse crudelmente tra noi e l’ “oggetto” dei nostri desideri, rendendocelo talora solo temporaneamente altre definitivamente inaccessibile.
L’assenza tuttavia non è solo la distanza, l’inaccessibilità, il non possesso di un bene, è il riconoscimento del nostro limite segnato dal pennarello rosso (come si fa con i contorni di un disegno) e come tale ci racconta qualcosa di noi, svelandoci il mondo degli affetti più cari, dei bisogni più autentici, dei luoghi più nostri. L’assenza in definitiva è il regno del “più” e non come comunemente si pensa della sottrazione, è il “non luogo” in cui facciamo esperienza della nostalgia di noi stessi, dove non possiamo decidere la priorità di ciò che vorremmo fosse presenza, ecco perché vivere nell’assenza non può, né dovrebbe trasformarsi in alienazione, rinuncia, nichilismo. Una presenza che non si nutra di assenza è solo l’ombra passeggera di una nuvola, ci rinfresca per un attimo, ma non ci cura dall’arsura. Ci sono presenze capaci di distrarci così tanto dai luoghi dell’assenza, da illuderci che non esistano e che sia più saggio farne senza, sono le presenze che desertificano l’esistenza, trasformando in nulla ogni aspirazione, in rassegnazione e fallimento ogni sconfinamento. Sarebbe bello poter abitare i luoghi dell’assenza, aprire una fessura in quel contorno e lasciare trasbordare l’uno nell’altro, senza paure, lontani dal triste rigore del controllo. Sarebbe giusto poter nutrire l’assenza, coltivarla fino a farla germogliare presenza, come si fa con un seme sepolto sotto terra. Eppure abbiamo paura di non vivere, di perdere le succulente occasioni presenti per qualcosa che non c’è. Il luogo del non c’è o che non c’è, l’utopia del possibile o dell’impossibile?
Antonella Foderaro
Hanno collaborato a questo numero: Pasquale Esposito, Maria Lucia Tarantino, Cristina Bove, Mariangela Valenti, Francesco Colia, Barbara Sangiovanni, Antonella Foderaro, Francesco Palmieri, Silvia Rosa, Stefano Marino, Felice Irrera, Andrea Corona, Elena Sudano.
Copertina: Paola Viola.
Fotografia: Paola Viola, Marta Baldassarre, Francesco Colia, Marta Aucone, Ivan Macioce, Fabio Trisorio, Sebastian Miquel.
Tema del prossimo numero: In quanto il tempo è ogni volta mio, ci sono molti tempi.
Scadenza presentazione articoli e foto: 20 Agosto 2012
Per info, collaborazioni, abbonamenti scrivere a: filosofipercaso@gmail.com
Interessante il concetto di “non luogo” di cui qui si parla. A presto leggervi!
Sempre bravi e con un gusto fotografico impeccabile! <3
L’assenza è soltanto una parola, le cui sfumature dipendono sempre dalla profondità del legame tra il nostro essere e ciò che siamo in grado di esprimere e/o cogliere. E’ illusorio cercare di dare un significato univoco al linguaggio perché è il proprio vissuto e la nostra sensibilità a colmarla di sensi, in un continuo movimento. Un vuoto che si riempie di frammenti di memoria, di emozioni soltanto nell’attimo in cui ripercorriamo il tempo a ritroso, perché l’assenza è sempre una cosa che percepiamo al tempo passato e tante volte non riusciamo nemmeno a rispettare i punti saldi del viaggio o riconoscere le ragioni che ci hanno spinto a partire. Trattasi di una persona, un posto, una canzone, un odore o di un’immagine impresa nell’anima e nella memoria perché speciali. Spazio sospeso nel tempo in cui si scivola nel tentativo disperato di recuperare quei brandelli del proprio io che non ritroviamo altrove. L’inconscia consapevolezza della nostra effimerità ci costringe a saldare legami con l’inconsistenza piena di significati dell’irrecuperabile. Così scendiamo dalla realtà e c’inseriamo in un labirinto alla ricerca del contrario, tendiamo disperatamente la mano cercando di attraversare il confine della propria dimensione, nella speranza di trovare una mano salda pronta ad afferrare la nostra. Ma quanto tempo possiamo restare in equilibrio su una corda immaginaria?
a presto leggerla.
cari saluti a tutti
cb