
Papaveri – Scatto di Maria Lucia Tarantino
Solitudine
Ero stanca di sentire il vuoto
di parole nate da menti d’avorio,
fiume in piena
proiettato sullo schermo del cielo.
Ero stanca di vedere sguardi
ciechi su volti di cera.
Sordo l’udito alla muta richiesta d’amore.
Sono rimasta sola.
Le fragili pareti del cuore
resistono alla voce
assordante del silenzio.
E ricerco il senso dell’esistere
in un papavero rosso
accarezzato dal vento caldo di agosto.
I rapporti tra le persone si sono modificati a causa del modo frenetico di vivere la quotidianità, della mancanza di tempo e dello stress che ne deriva. Questo ha reso l’uomo incapace di ascoltare, comprendere e andare oltre l’apparenza, portandolo quindi a considerare vero quel che sembra o vede in superficie. Così si è allontanato dai propri simili con i quali non vive quasi più empaticamente e si sente solo anche se è fra tanta gente.
Sempre più spesso interagisce perché spinto dal perseguire obiettivi utilitari ed egoistici, concentrato sulle proprie necessità a discapito di quelle degli altri. Oppure per le esigenze del pensiero, frutto della cultura legata a quell’insieme di norme che rendono gli individui “uniti” ad operare, in certi casi paragonabili ad automi, per il raggiungimento degli stessi obiettivi.
In rapporti di tale natura, dove c’è poca sensibilità, ci si concentra su quello che si deve o non si può fare e si finisce per muoversi automaticamente ed in solitudine con la convinzione di sentirsi individui responsabili.
Scrive Antoine de Saint-Exupéry: “Questo uomo era così occupato che non alzò neppure la testa all’arrivo del piccolo principe. Tre più due fa cinque. Cinque più sette: dodici. Dodici più tre: quindici. Quindici più sette fa ventidue.
Ventidue più sei: ventotto. Ventisei più cinque trentuno. Dunque fa cinquecento e un milione seicento ventiduemila settecento trentuno.
– Cinquecento e un milione di che?
[…] Di quelle piccole cose dorate che fanno fantasticare i poltroni. Ma sono un uomo serio io! Non ho il tempo di fantasticare.
[…]
– Ah! Di stelle?
– Eccoci. Di stelle.
– E che te ne fai di queste stelle?
– Le amministro. Le conto e le riconto, disse l’uomo d’affari. – È una cosa difficile, ma io sono un uomo serio!
– Io, se possiedo un fazzoletto di seta, posso metterlo intorno al collo e portarmelo via. Se possiedo un fiore, posso cogliere il mio fiore e portarlo con me. Ma tu non puoi cogliere le stelle.
– No, ma posso depositarle alla banca.
– Che cosa vuol dire?
– Vuol dire che scrivo su un pezzetto di carta il numero delle mie stelle e poi chiudo a chiave questo pezzetto di carta in un cassetto.
– Io – disse il piccolo principe – possiedo un fiore che innaffio tutti i giorni. Possiedo tre vulcani dei quali spazzo il camino tutte le settimane. Perché spazzo il camino anche di quello spento. Non si sa mai. È utile ai miei vulcani ed è utile al mio fiore che io li possegga, ma tu non sei utile alle stelle…
L’uomo d’affari aprì la bocca ma non trovò niente da rispondere e il piccolo principe se ne andò”.( 1 )
Molte volte nella realtà si verifica proprio questo: dopo aver tanto prodotto, ci si ritrova a non aver realizzato niente di utile se non un “pezzetto di carta”, riposto in banca con su scritto un numero. La ricchezza di una vita intera consumata nel concretizzare seriamente un “numero grande”. La realizzazione di una quantità che ha sottratto tempo, ma soprattutto privato l’esistere di vita e di presenza. Tuttavia, prima o poi l’uomo avverte il bisogno di quell’umanità perduta o mai avuta che è essenziale perché si senta una persona e non un individuo o peggio ancora una cosa, desiderando così la vicinanza dell’altro poiché ne percepisce l’assenza, derivante questa “…dalla sensazione di abbandono di questo mondo” e dal “.…sentimento di un nulla esteriore. Come se il mondo avesse perduto di colpo il suo splendore per raffigurare la monotonia essenziale di un cimitero”.( 2 )
Per evitare che la vita si riduca soltanto ad un’esistenza in cui l’individuo “si muova” meccanicamente accanto ai suoi simili, è importante che egli salvaguardi il sentire del cuore che non pensa, ma prova in maniera genuina, spontanea e soprattutto naturale e vera per dare al prossimo quell’attenzione che confermi la sua presenza, intesa come appartenenza alla propria sfera vitale, la quale nasce appunto attraverso l’apertura e l’ “andare verso” l’altro per regalargli una parte di sé.
Tale effetto si ottiene solo se l’essere umano si prende cura del proprio tempo, da possedere non per amministrarlo e nemmeno per contarlo e ricontarlo, ma per amarlo. Quello di cui parlo è un tempo “interiore”, al di fuori dell’infinità degli attimi reali, che si traduce in “dedizione”, la quale crea vicinanza nei rapporti relazionali.
In questo contesto, il tempo assume la connotazione di un “dono” speciale: si elargisce il proprio tempo in quanto offerta preziosa per chi lo riceve, ma anche per chi lo dà perché nel libero donarsi c’è un darsi reciprocamente con autenticità.
Ecco perché nessuno ne può fare a meno, neppure chi è in apparenza freddo e distaccato, né chi si pone in un atteggiamento di chiusura manifestandosi con durezza e nemmeno “l’uomo d’affari” che lavora con serietà, totalmente dedito al suo dovere.
È bene, dunque, che ogni essere umano lasci maggiore spazio al proprio sentire e che, attraverso l’agire, libero da pensieri, si avvicini all’altro e gli dedichi la giusta considerazione, offrendogli una parte del proprio “tempo”. In questo modo si auspica che nessuno si percepisca e dica di sé e degli altri: ”Siamo come isole nel mare della vita; tra noi si inserisce il mare che ci limita e separa. Per quanto una persona si sforzi di sapere chi sia l’altra persona, non riuscirà a sapere niente se non quello che la parola dice – ombra informe sul suolo della sua possibilità di intendere”.( 3 )
Maria Lucia Tarantino
Note
( 1 ) ANTOINE DE SAINT – EXUPERY, ” Il piccolo principe”, Fabbri Editori, 2010, p.55;
( 2 ) E. CIORAN, “ Al culmine della disperazione” , traduzione di Fulvio Del Fabbro e Cristina
Fantechi, Adelphi, 1998;
( 3) F. PESSOA “Il libro dell’inquietudine”, tr. P. Ceccucci, O. Abbati, Newton Compton, 2010