«Condannato a morte!» Sono cinque settimane che convivo con questo pensiero, sempre solo con esso, sempre agghiacciato dalla sua presenza, sempre curvo sotto il suo peso! Un tempo, poiché mi sembra che siano passati anni piuttosto che settimane, ero un uomo come un altro. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto aveva la sua idea. […] Potevo pensare a ciò che volevo, ero libero. Ora la mia mente è prigioniera in un’idea. Un’orribile, una sanguinosa, un’implacabile idea: condannato a morte!
Sin dalle prime battute di Le dernier jour d’un condamné, Victor Hugo ci fa capire che un ruolo importante nel suo romanzo sarà giocato dalla scansione temporale. Questa, che si dilata e si restringe nel corso delle ultime settimane di detenzione (e di vita) di un condannato a morte, culminerà nel drammatico epilogo in place de Grève, dov’è allestito il patibolo con la ghigliottina.
Se almeno sapessi com’è fatta quella cosa, e come si muore lassù! Il nome di quella cosa è tremendo, e non capisco come ho potuto finora scriverlo e pronunciarlo. La combinazione di queste dodici lettere, il loro aspetto, la loro fisionomia sono fatte proprio per risvegliare un’idea spaventosa, e il medico della malora che l’ha inventata aveva un nome predestinato… Sembra che ci sia una bascula e che ti facciano sdraiare sul ventre… Ah! i miei capelli si imbiancheranno prima ancora che la mia testa cada!
Risvegliare un’idea spaventosa con uno strumento di tortura è un concetto che ritornerà anche nella celebre Genealogia della morale (1887) di Nietzsche, allorquando il filosofo tratterà della durezza delle pene e dei supplizi come coadiuvante della “mnemotecnica”: «forse nell’intera preistoria dell’uomo addirittura nulla è più spaventoso e sinistro della sua mnemotecnica» (Gen., II, § 3). Ecco perché Nietzsche finirà per inglobare la genealogia delle pene (squartamento, bollitura, scuoiatura – la lista è lunga) in quella della morale; ed ecco perché le sue parole suoneranno così simili, nel tono e nei contenuti, a quelle di Hugo, per il quale, parimenti:
Resta la teoria dell’esempio. Bisogna dare esempi… allora ridateci il XVI secolo, siate veramente formidabili: ridateci la varietà dei supplizi, ridateci i tormentatori giurati, ridateci la forca, la ruota, il rogo, i tratti di corda, il taglio delle orecchie, lo squartamento… ecco l’esempio in grande; ecco la pena di morte ben intesa; ecco un sistema di supplizi che ha una certa proporzione… ma dite un po’, siete davvero seriamente convinti di dare un esempio quando scannucchiate miserabilmente un povero diavolo nel punto più deserto dei boulevards esterni?
Il proposito dello scrittore francese è sostanzialmente quello di mostrare l’inutilità della pena di morte, nonché la sua crudeltà, confutando con veemenza la tesi secondo cui una pratica come quella della ghigliottina possa considerarsi una fine “dolce”:
Gli uomini che giudicano e che condannano proclamano la pena di morte necessaria, prima di tutto: perché è importante scindere dalla comunità sociale un membro che le ha già nociuto e che potrebbe nuocere ancora. Si trattasse solo di questo, il carcere a vita basterebbe. Perché la morte? […] È come se il coltello della ghigliottina impiegasse sei settimane a cadere.
E così, fra mille tribolazioni, si giunge inesorabilmente al fatidico “ultimo giorno”, che scorre lentamente, eppure così in fretta:
Si dice che sia cosa da nulla, che non si soffre, ch’è una fine dolce, che in questo modo la morte è molto semplificata. Eh, che cosa sono allora questa agonia di sei settimane e questo rantolare di un intiero giorno? Che cosa sono le angosce di questa giornata irreparabile, che passa così lentamente e così in fretta? Che cos’è questa scala di torture che termina sul patibolo?
Gli uomini che giudicano e che condannano, dunque, assolvono se stessi con troppa indulgenza se credono di dare una morte dolce. Essi, infatti
Trionfano al pensiero di potere uccidere senza far quasi soffrire il corpo. Ah, ma non di questo si tratta! Che cos’è il dolore fisico paragonato al dolore morale? Leggi così fatte dovrebbero ispirare orrore e pietà.
A tornare in mente è ancora Nietzsche: «Come può essere il far soffrire una riparazione?», «il far soffrire – una vera e propria festa» (Gen., II, § 6). La pubblica esecuzione, dunque, non si configura come una riparazione, ma come uno spettacolo avente per attori il boia e il condannato, e col patibolo a fungere da palcoscenico. È palese come tutto questo serva a dare un’immagine di una giustizia vendicatrice e punitiva, ma…
Ma mi si risponde, la società deve vendicarsi, la società deve punire. Né una cosa né l’altra: vendicare è un atto dell’uomo, punire appartiene a Dio. […] Niente carnefici dove bastano carcerieri.
Non spetta alla società, quindi, vendicarsi e punire. In questa posizione c’è tutta l’eco del pensiero di Beccaria e del suo coraggioso Dei delitti e delle pene (1764). Eppure, L’ultimo giorno di un condannato a morte, pubblicato nel 1829, sembra anticipare anche delle posizioni kierkegardiane. Quando il protagonista del romanzo è incerto sul suo destino, e i suoi pensieri vagano senza posa dal carcere a vita alla condanna a morte, fino alla speranza di una grazia, Hugo precorre la tesi di Kierkegaard, secondo cui l’angoscia è quel sentimento di sgomento che prende l’uomo di fronte all’incertezza riguardo al suo destino (Il concetto di angoscia, 1844; La malattia mortale, 1849).
E se da un punto di vista dei contenuti il romanzo assume spesso dei connotati filosofici, anche a un’analisi prettamente critico-letteraria non mancano riferimenti alla filosofia (estetica e romantica) del tempo. Nel 1827, cioè appena due anni prima di Le dernier jour d’un condamné, Victor Hugo pubblicava il dramma storico Cromwell, la cui famosa Prefazione costituirà un vero e proprio manifesto per il romanticismo francese. In essa, Hugo riprendeva apertamente le tesi del Corso di letteratura drammatica (1809) di Schlegel, per il quale l’arte moderna, letteratura inclusa, ha il compito di riflettere l’inquietudine dell’animo umano e abbandonare l’armonica perfezione formale dell’arte classica. E L’ultimo giorno rientra a pieno titolo nella nuova poetica. Leggiamo infatti, nella Prefazione del Cromwell, che
la musa moderna vedrà le cose sotto un aspetto più elevato e più ampio. Sentirà che tutto nella creazione non è umanamente bello, che il brutto vi esiste accanto al bello, il deforme accanto al grazioso, il grottesco sul rovescio del sublime, il male col bene, l’ombra con la luce.
Hugo rifiuta polemicamente i princîpi basilari del classicismo, come l’identificazione dell’arte con il bello o come il cosiddetto “principio di selezione”, che escludeva rigorosamente dall’arte ciò che non veniva ritenuto abbastanza nobile e degno. L’Ottocento letterario intende invece ascrivere anche il penoso e il terribile al regno dell’arte, per offrire una rappresentazione più aderente alla realtà. La poetica di Hugo, tuttavia, non va intesa come una semplice affermazione di esigenze realistiche, e nemmeno come una rappresentazione integrale della realtà contro le tendenze idealizzanti del classicismo, perché la sua penna tende a scuotere gli animi e le coscienze dei lettori molto più di un resoconto cronistico. Come si evince dalla prefazione, in forma di dialogo, alla terza edizione (1832) di Le dernier jour, intitolata Una commedia a proposito di una tragedia, e nella quale alcuni aristocratici così commentano a proposito di questo romanzo e del suo autore:
Bisogna convenire che i costumi si stanno depravando di giorno in giorno. Mio Dio, che idea orribile! sviluppare, scavare, analizzare, una dopo l’altra e senza trascurarne nessuna, tutte le sofferenza fisiche, tutte le torture morali che deve provare un uomo condannato a morte, il giorno dell’esecuzione! Non è atroce? […] Quando vedo una tragedia, dove si ammazzano, non mi fa effetto. Ma questo romanzo vi fa rizzare i capelli in testa, vi fa venire la pelle d’oca, vi fa fare brutti sogni!
Ciò che Hugo rivendica, in ultima analisi, è l’affermazione del carattere multiforme, a più facce, della realtà. Una realtà non sempre giusta e piacevole, non sempre bella e “letteraria”, ma dalla quale non dobbiamo distogliere lo sguardo, o non la cambieremo mai laddove necessita di essere cambiata. E se il compito di un romanziere è quello di affrontare argomenti impegnati, scomodi e a volte scabrosi, quello del lettore è di scorrere le pagine di questi libri, e di farlo con atteggiamento certamente diverso da quello dell’aristocrazia ottocentesca, che tendeva a considerare tabù proprio ciò che, a ben vedere, aveva sotto il naso e di cui, non di rado, era essa stessa responsabile.
Andrea Corona
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta nella sezione “Zoom” della Rivista n. 6/2012