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Sono sempre stata affascinata dall’ombra, fin da bambina. Forse per il mistero che porta con sé, forse per l’immaginazione che alimenta (alcune volte in modo spaventevole). L’ombra è il segno, allo stesso tempo, di un’assenza e di una presenza: l’assenza di un oggetto, di un corpo, di una persona, per esempio, e la presenza attraverso una sua proiezione. L’ombra dichiara una presenza, ma, allo stesso tempo, non può sostituirsi ad essa. L’ombra mantiene il binomio assenza-presenza e mi permette di mutuare il concetto di complementarità cibernetiche, proposto da Keeney come cornice epistemologica alternativa per l’esame delle distinzioni (Keeney, 1995). Quando dobbiamo definire un concetto può essere estremamente indicativo capire che cosa esso non è. In una coppia hegeliana tendiamo per lo più a interpretare i due poli come reciprocamente escludentisi (secondo una logica o/o). Invece la complementarità cibernetica ci indica che c’è una cornice, un processo più ampio, un sistema, che non solo tiene insieme i due poli, ma li rende entrambi necessari e co-dipendenti nella loro reciproca definizione (logica e/e).
Secondo la psicologia junghiana l’Ombra è quella parte inconscia dell’individuo che contiene istanze e desideri rimossi: possiamo incontrarla lungo il cammino della via interiore, essa, come in uno specchio, rinvia la nostra immagine senza trucchi e senza sotterfugi. Dunque parlare di ombra, vuol dire parlare di un’identità sempre sfuggente e in divenire. Nell’incontro con l’Ombra, per azione riflessa, vediamo di noi ciò che non amiamo vedere. Essa, tuttavia, non cela solo il male: è portatrice di limiti, di confini, di incompiutezza. Mi sono chiesta, e molti autori prima di me, se possa mai esistere un uomo senza ombra. Sarebbe senza dubbio un essere piatto, bidimensionale, senza carne. Ricordo un viaggio a Bali, spettatrice del teatro delle ombre. Uno spettacolo totalmente avvolto nell’oscurità, dove le immagini appaiono nel buio attraverso una fiamma dondolante, posta dietro un telo bianco. I deboli guizzi della fiamma imprimono all’ombra un suo pulsare, un ritmo impercettibile che rende i personaggi delle narrazioni epiche, vivi, tangibili, quasi corporei. Tutto assume una fisionomia profonda, riflessiva, misteriosa, tridimensionale. E’ uno spettacolo che può durare ore, anche un’intera notte, fino all’alba. Il fascino misterioso di quell’esperienza ha continuato e continua a nutrirmi per capire le ombre. L’ombra allude sempre a un mistero, a un enigma da scoprire e da custodire. Scrive Maria Zambrano conoscere l’uomo è custodire il suo mistero (1953). L’ombra diventa allora il luogo dell’interiorità, del raccoglimento: è la nostra parte notturna a cui dare voce, è quella terza dimensione, anch’essa sfuggente e in divenire, che dona profondità al nostro vivere.
Riflettere sull’Ombra, e dunque sull’assenza-presenza, è anche un pensare in relazioni, sia in termini intrapsichici sia in termini inter-individuali. Nelle relazioni, infatti, vi è sempre un effetto di ombre, di errori, di dubbi, di perplessità e di incertezze che non possono essere colmate, che non possono essere illuminate. Come un’opera d’arte non può essere compresa mai fino in fondo, così le relazioni si muovono su altri piani di percezione e di sensazione che trascendono l’attività razionale: una parte rimane irriducibile, inconsapevole e ignota.
Per affinare il nostro sguardo sulle cose, propongo di seguito un allenamento in tre tappe per riflettere sul rapporto assenza-presenza con possibili direzioni di senso. Lo farò utilizzando un approccio indiretto e metaforico.
Prima tappa: Camminare nell’assenza di luce
Direzione di senso: Allenarsi alla decostruzione, allo smantellamento del conosciuto e lasciare affiorare gli automatismi quotidiani che agiamo quando siamo in relazione con gli altri.
Se cammino in una stanza buia, attendo qualche minuto per cogliere le sfumature di oscurità: gli oggetti più chiari appariranno. Più passerà il tempo, più si distingueranno le forme degli oggetti, ma non i colori. Come ci si sente quando si cammina nel buio? Il passo è incerto, tremolante, lento. La sensazione dominante è quella di sentirsi vulnerabili e indifesi. E’ un modo per sperimentare l’errore di azione, di visione, di relazione. Ho ancora vivo il ricordo di un’esperienza vissuta qualche tempo fa in un locale di Zurigo. Il Blindekuh è un ristorante nell’oscurità che promuove una cultura dell’oscurità. Ci sono culture che privilegiano un senso piuttosto che un altro (gli occidentali senz’altro la vista), appiattendo tutto il resto. In questo locale tutto è buio, come in una caverna profonda, si mangia nella completa oscurità serviti da camerieri ipovedenti. C’è poco da fare in quella situazione, l’unica cosa è affidarsi al tatto, all’udito, all’olfatto, al gusto e affidarsi all’altro che ti accompagna nell’incertezza. Le reazioni nell’oscurità sono le più svariate: da chi ride ininterrottamente a chi silenziosamente ascolta i rumori, gli odori, per capire distanze e vicinanze di corpi, di oggetti, di voci. In quell’oscurità totale, si è totalmente immersi in sé, le distanze diventano impalpabili, inaccessibili: la vista non serve. Tutto il resto si amplifica: sapori, odori, con-tatti in un tempo indefinito e indefinibile che è palpito, ascolto, cura. Questa esperienza è altamente formativa, così come l’esperienza tutta italiana di Dialogo nel buio, un percorso che si compie in totale assenza di luce e che permette di sperimentare un nuovo modo di “vedere”.
Nella relazione con gli altri, noi camminiamo a tentoni nell’oscurità, nell’incertezza, nell’instabilità: nel momento in cui tutto è chiaro, non vi è mistero, non c’è scoperta, né tensione curiosa. Camminare nel buio ci aiuta a respingere l’impulso di indicare la via agli altri, di mostrare certezza rispetto a come stanno le cose e dunque di assumere un atteggiamento accogliente di attesa e di ascolto.
Mentre rifletto su questo tema, ho tra le mani un testo di Tabucchi che sembra combinarsi bene a questi pensieri. Il protagonista di Notturno Indiano (1984) inizia un viaggio alla ricerca di un altro, un amico, che non ha nessuna intenzione di farsi trovare. Ha solo qualche indizio: una lettera, testimonianze reticenti, piccoli pezzetti, segnali, da appiccicare approssimativamente insieme, in poche parole è un brancolare nel buio. L’impressione che ne ricavo è che il protagonista cerchi se stesso, cercando un altro, e qui il gioco dell’assenza-presenza ritorna per riflettere sulle relazioni umane. Come per l’ombra, l’assenza è qui già data, la perdita è già avvenuta (la relazione amicale di un tempo) fuori dalla cornice del racconto, e la narrazione non ricostruisce la persona assente, quanto semmai fornisce una rappresentazione dell’assenza stessa che diventa motore per conoscere il mondo e conoscersi. E’ attraverso questa consapevolezza che lascio un finale aperto come in Notturno Indiano.
Seconda tappa: Riconoscere la presenza dell’assenza.
Direzione di senso: Allenarsi alla presenza del vuoto e lasciare apparire l’assenza
Luis Sepulveda, dopo quattordici anni di esilio, in Ritratto di gruppo con assenza (2010), ritorna in Cile. Il pretesto è una fotografia di un gruppetto di sorridenti visi infantili. Bambini che non possono essere dimenticati per la loro dolcezza, per la loro purezza, bambini che vivevano in Cile, in un quartiere povero di Santiago, uno dei più tormentati dalla repressione e dalla miseria. Sepulveda conserva la fotografia per tutto il tempo del suo esilio, sentendo che la purezza di quei bambini era l’unica cosa che gli restava del Cile che aveva conosciuto. Decide così di andare sulle tracce dei loro destini personali, ma anche del destino di un paese appena uscito dalla dittatura e di scattare dunque una seconda fotografia di quegli stessi bambini, ormai giovani adulti. Lungo il viaggio della memoria e della presenza, Sepulveda scopre la perdita: manca Marcos, lo spazio lasciato vuoto da Marcos, assassinato a quindici anni per aver rubato da mangiare. Nella distanza di tanti anni, quella mancanza fa sentire la ferita dell’impotenza, la repressione dell’allegria, il furto dell’infanzia, l’umiliazione dei sogni e la mancanza di speranze. La purezza è stata persa, strappata dalla dittatura. Rimane il sentimento sopito e il ricordo di un paese che non c’è più. Un senso di vuoto pervade e che solo la scrittura come testimonianza può colmare.
L’artista Cesare Pietroiusti, nei suoi Pensieri non-funzionali (1978-2008), propone un’azione riflessiva per esplorare il vuoto: “Entra in una stanza vuota e fai l’elenco di tutto quello che c’è dentro”. Quello che propone l’artista, ed io con lui, è un pretesto di ricerca, così come in Ritratto di gruppo con assenza è la fotografia dei bambini che fa scattare in Sepulveda il processo di assenza-presenza.
Bisognerebbe provarci: sperimentare l’azione di entrare in una stanza, non più buia, ma vuota.
Quali presenze-assenze notiamo in una stanza vuota? Cosa ci comunica un luogo spoglio e deserto? Sarebbe fin troppo facile far riferimento all’horror vacui o all’horror pleni, cerchiamo di stare in ascolto di ciò che accade. Io posso raccontare cosa è accaduto in me, è un’esperienza soggettiva però può offrire qualche possibilità di esplorazione del vuoto. C’è una luce che gradatamente produce ombre, l’ombra del mio corpo, delle mani. E l’ombra dei miei pensieri? Il silenzio pervade gli spazi: in assenza di parole. Il silenzio apre un varco: emozioni e immaginazione prendono il sopravvento. Lo spazio vuoto diventa un’azione generativa per disporsi all’ascolto per esplorare le profondità che si aprono al di là del suono. Seguo le ombre (le macchie?) sui muri e sulle piastrelle. Queste hanno preso forma, sono diventati volti, storie, voci, ricordi (piacevoli e penosi). Sto incontrando la mia Ombra? Voglio andare sulle sue tracce, vedere Luce e Ombra.
Terza tappa: Vedere in penombra
Direzione di senso: Esercitare la vista su un oggetto che non si accontenta di essere guardato solo direttamente, ma che invoca un cambio di angolazione
“Questa penombra è lenta e non fa male/scorre per un mite pendio/e somiglia all’eterno”, scrive Jorge Luis Borges nella sua opera Elogio dell’ombra (1969). Vedere in penombra ha un effetto rilassante: niente luci abbaglianti, si genera un’interessante percezione estetica ed emozionale che favorisce riflessione e raccoglimento. Come vedo un oggetto in penombra? Per prima cosa non bisogna guardarlo direttamente, ma in modo periferico. Guardare di lato le cose. Attraverso lo sguardo della penombra impariamo a decentrarci, a non essere al centro, ma a fianco dell’altro, in periferia e altre cose si mostrano a noi. E’ un’attività che richiede uno sforzo continuo e costante, una vita di tentativi, di prove e di errori per imparare cosa vuol dire decentrarsi, lasciare agli altri la libertà di scegliere e di andare. Abbandonare una visione egocentrata.
Del resto, si chiede Junichiro Tanizaki nel Libro d’ombra (1935), per apprezzare un quadro è forse necessario conoscere ogni particolare? Pensiamo alle opere di Caravaggio dove un’attenzione particolare è sempre riservata alla luce. Le immagini sono circondate dall’oscurità, creando un effetto molto originale: le immagini appaiono dal buio. Le figure appaiono grazie a sprazzi di luce: una fiaccola, uno spiraglio, una finestra aperta. Pertanto ciò che si coglie è solo una porzione della realtà: solo quel tanto che la debole illuminazione consente di vedere. Il resto rimane nell’oscurità, nel mistero, nella penombra.
Mi sono imbattuta in un film d’animazione russo del 1975, Il riccio nella nebbia del pluripremiato regista Yuri Norstein, che ritengo calzante per queste riflessioni. In breve la trama: è la storia di un piccolo riccio che si incammina in un bosco per andare a far visita al suo amico orso. Lungo il tragitto si perde nella nebbia, sempre più fitta, che genera ombre familiari e spaventevoli. In questa atmosfera lattiginosa e ovattata, le cose sono viste in modo parziale. Il riccio rischierà di annegare, ma sarà salvato da uno strano pesce che lo accompagnerà alla riva. Ritrovato l’amico orso, il riccio non smetterà di pensare al bianco cavallo che per primo vide nella nebbia.
Questa storia mi fa pensare che il riccio, nella penombra della nebbia, scende nel suo inconscio e affronta diverse paure, lasciandosi andare nell’acqua, a contatto con le sue emozioni. Nella visione delle ombre, rischia di affogare, l’aiuto però arriva da un pesce misterioso che fa riemergere il riccio, e lo porta in salvo a pelo d’acqua. Probabilmente alcuni contenuti, ancora sommersi, sono indicibili, non possono venire a galla né il riccio è pronto o è in grado di reggerli. La luce è mitigata e indiretta. Scrive Maria Zambrano che il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare, lo si osserva dal limite, dalla periferia. La luce stessa, nel chiaro del bosco, si manifesta come riflesso che si dà obliquamente. In modo concatenato, mi ritornano in mente le suggestive parole della poesia n.1129 di Emily Dickinson:
Di’ tutta la verità ma dilla obliqua/il successo è nel cerchio/sarebbe troppa luce per la nostra debole gioia/la superba sorpresa del vero/Come il lampo è accettato dal bambino/se con dolci parole lo si attenua/così la verità può gradualmente/illuminare – altrimenti ci accieca.
Immergersi nell’Ombra, ma senza affogare. Lasciar apparire, non cercare, mantenere una postura provvisoria nelle relazioni con gli esseri viventi per tenere a mente l’insicurezza e il timore di errare, dicendo la “verità” in modo obliquo senza accecare. Vedo tutte queste azioni come nostre alleate per stare bene, per essere più accorti nella relazione in ascolto di sé e degli altri.
Chissà se questi riflessioni su luce, oscurità, ombra e penombra non ci aiutino a cogliere le gradazioni del reale e le sfumature prodotte dal chiaroscuro delle relazioni. Promuovere una luce mitigata e indiretta, una sorta di mi illumino di meno che sia in grado di non abbagliare e ferire gli occhi. Scrive Tanizaki, e se la luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano, e scopriamo la loro bellezza (1935,p.68).
Barbara Sangiovanni
Bibliografia
J.L. Borges (1969), L’elogio dell’ombra, Einaudi, Torino, 1971
B.P. Keeney (1983), L’estetica del cambiamento, Astrolabio, Roma, 1985
- Tabucchi, Notturno Indiano, Sellerio Editore, Palermo, 1984
- Sepulveda (2010), Ritratto di gruppo con assenza, Guanda, 2010
- Tanizaki (1935), Libro d’ombra, Tascabili Bompiani, Milano, 2011
- Zambrano (1977), Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano, 2004
- Zambrano (1953), L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma, 2001
Sitografia
http://www.pensierinonfunzionali.net./
http://www.blindekuh.ch/en/blindekuh_zuerich/
http://www.dialogonelbuio.org/
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=-rMlTU_RRJM