Nulla ha maggior peso della leggerezza, nulla richiede una forza superiore. Per contrastare ciò che ci attira irrimediabilmente verso la terra dobbiamo essere capaci di privarci del fardello che il nostro io ci impone. Dobbiamo uscire da noi stessi e dalla percezione che vogliamo dare agli altri, scegliendo di essere altro. Proprio nella scelta sta il primo punto di svolta. Nella decisione di abbandonare noi stessi per incamminarci verso l’altrove esercitiamo il primo atto di alleggerimento da noi stessi, ci inerpichiamo sul picco più alto, quello dal quale ci sia dato di contemplare tutto il mondo al quale prima appartenevamo, nel quale ci aggiravamo gravati dalla ineludibile armatura che la difesa del nostro essere ci obbligava ad indossare. E’ come se schinieri e pettorale avessero fuso il loro metallo con quello della cotta di maglia e tutto quel ferro ci fosse entrato nella carni, insediandosi appena a ridosso dell’epidermide, schermando il nostro corpo verso l’esterno in una maniera non visibile agli occhi, ma percepibile solo a noi stessi, con la rigidità dei nostri movimenti, con la perdita di ogni elasticità, la sofferenza per qualunque torsione verso chi ci invocasse, la pesantezza di ogni nostro passo, il rumore assordante della nostra sicurezza ai colpi esterni.
Il timore per quei colpi, la paura di una qualunque ferita che gli altri potessero infliggerci ci ha fatto produrre quella sorta di esoscheletro annidato sotto l’epitelio. Era il modo migliore per non soffrire, a nostro parere. Eppure è proprio attraverso ogni piccola ferita che impariamo a riconoscere il colore del nostro sangue, da ogni sbucciatura sulle ginocchia che ci ha spinto a risalire in sella, da ogni graffio sul viso che non ci ha impedito di guardare cosa ci riservasse il futuro. Allora perché abbiamo sviluppato nel tempo una simile protezione ? Non ci serve.
Dal picco sul quale siamo saliti grazie alla scelta ci resta da fare un ulteriore passo. Il nostro peso è ancora percepibile. Per vincerlo dobbiamo cimentarci con la libertà. E’ solo grazie ad essa che potremo godere appieno della leggerezza. La libertà serve a conservarci la possibilità di ripetere ancora quella scelta, a darci lo spazio sufficiente per percorrere la strada che ci porta all’altro. Tuttavia la libertà richiede forza, il massimo della forza. Per averla dobbiamo rompere ogni vincolo, spezzare i legacci che ci ancorano ai ceppi sul terreno della meschinità e allontanarci dal nostro io, pieni della bellezza degli altri e, soprattutto, ricolmi dell’amore che incontreremo.
La leggerezza incontra sempre l’amore giacché esso predilige l’assenza di peso, anche se nello stesso tempo è portatore di peso poiché ci riempie il cuore di interesse per qualcuno, ci fa godere della sua presenza, ci apre all’ingresso, ci fa attendere la venuta, esalta l’attesa, l’incontro, la compagnia. L’amore non vive bene in un cuore già pesante prima del suo arrivo. Ecco, dunque, che la leggerezza lo attira e ad essa l’amore si unirà per partorire la gioia.
Da quel picco dovremo spiccare il salto, avventurarci nel vuoto, provare l’emozione del volo. Gli esseri umani non sono nati per volare. Non hanno ali, non hanno la struttura scheletrica adatta e nemmeno una adeguata muscolatura. L’aspirazione al volo è morfologicamente impedita, ma possibile sfruttando altre risorse. Gli uomini devono imparare una diversa forma di volo, possono volare proprio grazie alla leggerezza.
Essa riempie la discontinuità tra la realtà e la trascendenza, quell’istante nel quale si crea lo scarto, il vuoto di pensiero da colmare, il senso di inadeguatezza del quotidiano che richiama ad un diverso pensiero. Gli uomini devono ricercare la diversità che li allontana dalla loro pochezza. In quella ricerca, indotta dal bisogno e dall’afasia dell’ordinario, potranno intravedere il seme del prossimo verso, l’evento salvifico di un nuovo mattino, le parole che dedicheranno alla persona amata. E’ un riscatto dalla limitatezza del loro essere, un bisogno antropologico. Nelle parole che sgorgheranno nella leggerezza troveranno una risposta al loro insoluto, al bisogno di un nuovo compiuto. Gli uomini devono essere leggeri per essere assai meno umani, dunque meno mortali. Nella leggerezza può nascere la poesia, la voglia di subliminare la loro carnalità, l’aspirazione al divino che li spingerà a conoscere, a cercare l’altro, a parlarne la stessa lingua.
E’ una operazione che risponde all’ontologia del vivere quotidiano, alla metafisica del tempo limite.
L’uomo nella leggerezza supera la malinconia, il peso di cui parlava Calvino nelle sue “Lezioni americane” e si spinge verso l’assenza, la privazione dalla materialità perché
L’uomo leggero è un uomo libero e non assoggettato alla coercizione del potere-corpo, è un essere in divenire giacché vive ogni istante come fine a sé stesso, non senza profondità e interesse, mai in maniera superficiale, sempre andando al senso delle cose perché la leggerezza ha proprio bisogno di sapere.
L’uomo leggero è dunque privato della terra e può spingersi verso il cielo, fosse anche solo con lo sguardo poiché ciò che conta è l’aspirazione ad essere altro. La memoria della terra è consapevolezza del pondus e quell’uomo non coltiva la memoria, ma il sogno e per suo tramite può librarsi in volo, può intraprendere il viaggio, iniziare la trasformazione.
La leggerezza abilita la trasmutazione.
La leggerezza è l’alchimia possibile, è il lapis che trasforma la materia in pensiero assoluto, puro piacere di immaginare l’altro, di spingersi verso l’altrove, di dimenticare il qui e ora. La leggerezza crea l’opportunità, genera alternative, non si attiene ad un codice di condotta predefinito men che meno imposto da altri.
Privato del peso corporeo che lo lega alla terra, l’uomo può involarsi nel verso poetico, nella speculazione filosofica, nella ricerca dell’amore. Il fardello della realtà è faticoso da portare e sottrae energia alla speculazione e all’innamoramento. La pratica del quotidiano avvicina irrimediabilmente l’orizzonte facendo percepire un mondo collassato sulla necessità, bisognoso di mera funzionalità. La leggerezza fa coltivare la speranza di un diverso futuro, fa inventare ogni istante del presente perché non si abbia a soccombere alla malinconia. Uno scultore intravede l’opera nella pietra e inizia la sua opera di rimozione liberandola dalla materia in eccesso, donandole la libertà. L’uomo leggero nasce libero, privato dalla materia, in grado di spiccare il volo. Tuttavia la scelta finale, il volo, l’ultimo punto di svolta, richiede coraggio per effettuare il salto.
La materia è tranquillizzante, rende stabili i rapporti e prevedibile il divenire, soggiace alle leggi della fisica, rimette al proprio peso la velocità ed il tempo. Il volo sfrutta il gesto finale e chiude la storia già scritta, consente un nuovo inizio, un diverso svolgimento. Esso si cimenta in un altro fluire e perde la scansione del tempo. Il salto è il superamento del concetto di vuoto e dunque anche di pieno, si spinge bruscamente verso l’assenza e lascia indietro la misura dello spazio. Tutto può ancora essere misurato, oppure non esserlo più. La leggerezza non ha misura, gode della libera fruizione. Il salto è un istante intermedio tra la certezza del peso, della terra e della sua solidità, e il dubbio della mancanza e della perdita. Si crea lo spiazzamento tra l’esperienza e l’aspirazione. Tutto può essere ancora desiderato e può nascere la più alta forma di amore.
La leggerezza si dipana lentamente a discapito di quell’istante iniziale in cui il salto è avvenuto, non può avere alcuna fretta proprio per consentirne il godimento. La pesantezza ha i suoi tempi scanditi e predefiniti, è assoggettata alla schedulazione, al cinismo della programmazione. Il peso induce il movimento del pendolo eppure non consente deviazioni da quella oscillazione. Il coraggio necessario al salto finale sta proprio nel superamento di ogni ordine precostituito, nella scrittura di una norma esogena al destino. Il peso determina la fine della storia e dunque la morte. La leggerezza è l’inizio della vita e non può che essere un atto di amore, la più alta forma di coraggio. L’unione di due mancanze come potrà mai creare qualcosa di diverso dal vuoto ? In tale vuoto ogni parola novella potrà essere pronunciata e per suo tramite ogni nuova storia potrà essere raccontata. Il distacco dalla terra può anche essere doloroso e, come ogni privazione, generare una iniziale sofferenza. Tuttavia ogni dolore lascia un vuoto che potrà essere occupato nuovamente, oppure lasciato disponibile all’altro che viene.
L’assenza di peso prepara le condizioni per l’accoglienza, dispone ogni recesso della nostra anima all’ingresso della luce. Ogni protezione è caduta, ogni difesa è venuta meno. Tutto è più vulnerabile. Questo è il coraggio della scelta. L’offerta di sé è la più pesante delle scelte e la più grande privazione. La leggerezza non è per tutti e richiede una grande consapevolezza. Nessuno potrà confonderla con la superficialità, giacché, pur veleggiando in superficie, avrà piena contezza dell’abisso che la minaccia e tuttavia nessun timore verrà a corrugarne la fronte, intenta come è a dialogare amabilmente con la sua amata compagna, la follia.
L’uomo in piena leggerezza se ne va per il mondo consapevole di chi lo accompagna, ma ignaro di quale sarà il nuovo incontro che gli farà comporre il prossimo verso d’amore. Quale poesia in quel volo, quale coraggio !
L’uomo leggero è felice. Il futuro avrà le sue sembianze.
Pasquale Esposito