La nave pirata
Ci sono film che si ricordano e altri che si dimenticano perché immersi in troppi fraintendimenti o interpretazioni. Ultimo tango a Parigi è una bellissima pellicola di Bernardo Bertolucci girata nel 1972 e interpretata da un grandissimo Marlon Brando. La storia è ambientata in una Parigi distratta, cornice della relazione tra Paul e Jeanne, due sconosciuti senza nome “sospesi” in un appartamento da affittare. Il titolo di questo CineSofia è: La nave pirata.
È difficile saper governare le proprie paure perché quello che non possiamo definire, nominare ci spaventa. Il linguaggio (s)fortunatamente è corso in nostro aiuto e così ogni cosa non solo ha assunto una forma identificabile ma addirittura un contenuto preciso. Tuttavia, i contenuti possono proiettare impulsi, desideri che non hanno nulla a che fare con il loro senso più vero. La parola plasma, protegge le cose da ogni possibile alterità assegnando alla follia il ruolo di critico sgradevole così il rifugio più sicuro si delinea nel “chiamare”, nel ri-conoscere concetti, persone, mondo in uno schema fedele.
I nomi hanno un sapere?
Jeanne: Non so come chiamarti.
Paul: Non ho nome.
Jeanne: Vuoi sapere il mio?
Paul: No, no sta zitta, non dire niente, io non voglio sapere come ti chiami, tu non hai nome, io nemmeno, nessun nome, qua dentro non ci sono nomi, non esistono nomi, capito?
Jeanne: Lei è pazzo.
Paul: Forse lo sono però non voglio sapere niente di te, non voglio sapere dove abiti, con chi abiti o da dove vieni, non voglio sapere niente, niente di niente, siamo intesi?
Jeanne: Mi fa paura.
Paul: Niente. Noi c’incontriamo senza sapere niente di quello che siamo fuori di qui, d’accordo?
Jeanne: Ma perché?
Paul: Eh perché, perché non abbiamo bisogno di nomi qui dentro, capisci? Dimenticheremo tutto ciò che sappiamo, tutto, cose, persone, gli altri, tutto ciò che siamo stati, gli amici, la casa, dobbiamo dimenticare ogni cosa, ogni cosa.
Jeanne: Non so, ci riusciremo?
Paul: Non lo so, hai paura?
Jeanne: No.
Apparentemente ci leghiamo a nomi, a provocazioni e con idee nostalgiche rammentiamo ciò che dimentichiamo con più rapidità e superficialità: le emozioni. Odori, suoni, contatti si dirigono sulla strada dei ricordi e ci illudiamo della parola, della possibilità che un nome possa far tornare quelle sensazioni passate. Dobbiamo costantemente vagare nell’incertezza del nostro credo, della nostra fede verso le immagini che popolano la mente, quelle che abitano e circolano come viandanti nel fiume dei pensieri.
Jeanne: Avrei voglia di inventare un nome per te.
Paul: Un nome? Ahhh Dio mi hanno chiamato con milioni di nomi nella mia vita ma che ci faccio con un nome, mille volte meglio un suono, un verso, un grugnito invece di un nome.
Il tempo quantifica i ricordi?
Se la nascita può considerarsi un inizio e l’esistenza un magazzino di esperienze perché il nostro percorso si arena su modelli che si ripetono? Abbiamo elaborato delle strutture linguistiche-concettuali per difenderci dai nostri limiti, per ricordare a noi stessi che possiamo incappare nell’errore del dimenticare. Siamo materia che invecchia, che si esaurisce nel tempo, tuttavia possiamo attestare le nostre orme nelle parole, nelle immagine, nelle cose, nelle persone.
Jeanne: Vedi la mia infanzia è legata a una quantità di odori, la muffa dei muri, odore di bucato, di marmellata, c’erano sempre bambini che venivano a giocare nella mia giungla, correvano dalla mattina alla sera … è davvero un delitto invecchiare.
Possiamo rivolgere lo sguardo in diverse direzione ma quello che divide il nostro respirare in un sospirare è quello rivolto al passato. Quanti sorrisi smorzati dai giochi inventati, quante lacrime versate nei no incomprensibili e così i suoni sembrano strani guardiani, soldatini a difesa di fortezze ormai chiuse in scatole di cartone.
Jeanne: Che cosa strana è guardare dietro di sé.
La solitudine ci basta?
Nulla può appagarci realmente, nulla può bastarci fino in fondo perché ciò significherebbe arrestare la nostra curiosità di conoscere. La solitudine è per lo più una condizione di arresto, di riflessione che c’investe senza indecisioni. I legami non si sciolgono nelle separazioni o nelle fughe ma nei lontani luoghi del respingere. Ciò che viene rifiutato ci lascia inevitabilmente soli, con noi stessi, con il mondo.
Jeanne: La tua solitudine è pesante, non è mica indulgente, non è mica generosa, sei un egoista … anch’io so bastare a me stessa, lo sai?
Dobbiamo inventare per non morire?
È terribile dover smettere di volare, planare non per mancanza di entusiasmo ma perché la logicità, il risolvere problemi si è impossessato di noi. È terribile dover mangiare un gelato senza sporcarsi il viso, dover resistere ai vuoti d’aria ma bisogna esseri seri e pelosi e saper inventare per non morire, per trasformare il caso in destino. Siamo adulti cosa potremmo desiderare di più? Siamo ciò che ci è stato dato fin dal nostro concepimento: esseri che sognano, volano in picchiata verso destini ignoti.
Tom: A me non piace ciò che muore, finisce, bisogna che cominciamo qualcosa di nuovo, insieme, subito, subito …
Jeanne: Trasformeremo il caso in destino.
Tom: Ecco stai decollando, vola, vola ci sei, hai superato le nuvole, sei in cielo, stai planando, risali … scendi in picchiata, giù, giù, fuori il carrello … Jeanne che succede? Un vuoto d’aria?
Jeanne: Che succede?
Tom: Eppure il cielo sembrava sereno, non possiamo più giocare così, ormai non siamo più bambini, siamo adulti.
Jeanne: Adulti? È terribile.
Tom: Sì, è terribile.
Jeanne: Eh, gli adulti cosa fanno?
Tom: Ah io non so, mah gli adulti, dovremmo inventare i gesti, le parole, gli adulti per esempio … comunque una cosa è certa e cioè che gli adulti sono calmi, seri, logici, pelosi.
Jeanne: Sì.
Tom: Rilassati.
Jeanne: Sì.
Tom: E risolvono tutti i problemi.
Jeanne: Sì, sì, sì.
Sarebbe bello ri-cominciare quello che svanisce dietro le nostre spalle ma quando qualcosa si esaurisce, finisce, non lascia margini di ri-nascita se non nel nostro cuore. Il forziere dei ricordi è sempre lì con noi a rammentarci che quel nome non ci ha spaventato e che nonostante la serietà della nostra condizione, abbiamo ancora un destino da accogliere.
Jeanne: È finita.
Paul: Quando una cosa finisce, si ricomincia da capo, no?
Francesco Colia
Viky
Nominare le persone è sempre riduttivo, ma ci da tanta sicurezza e ne abbiamo bisogno infine, non si può vivere sempre sull’orlo della pazzia. Altro è essere bambini, non crescere, rimanere pieni di entusiasmo senza farsi uccidere dalla logica. Non sempre è bene fare del caso un destino, ma alle volte il destino si veste da caso 🙂
Bravissimo Francesco nel proporre sempre aspetti nuovi ed eccellente scelta delle immagini! <3