“Nella mia vita non c’è più nulla di illogico, se non i legami fra le cose che la costituiscono” (Pier Paolo Pasolini, Atti impuri)
L’esperienza nutre ed educa la logica o la prima deve piegarsi al suo rigore? E’ il mondo dell’ aut aut, ove non c’è spazio per la declinazione della differenza.
Bianco o nero, vero o falso, buono o cattivo, maschio o femmina: “aut aut” è la malattia mortale del pensiero (o sarebbe più corretto dire del pregiudizio?) occidentale che tutto vuole ridurre alla “perfezione” e compiutezza dell’uno, non solo sul piano logico, ma anche su quello pratico.
E se questa unità così perfetta non fosse semplicemente una sintesi di tesi ed antitesi, ma coesistenza di una differenza? Se fosse un et et in costante dialogo ed ascolto reciproco, una gemellarità congenita, cosa ne deriverebbe per NOI?
Il nostro “io” diventerebbe da singolare plurale e l’altro, il diverso, lo straniero non sarebbe più nemico, né ospite, ma prossimo, compagno (cum panem= colui con il quale condivido il pane).
Nella relazione dunque il mistero del compiersi di un’identità personale in costante divenire: l’altro è il “simile” che mi restituisce diversità permettendo alla mia identità (diamante grezzo) di farsi, di inverarsi.
Un equilibrio perfetto, un idillio d’amore, un’utopia realizzabile solo a livello logico …(?) sul piano dell’esperienza il più forte divorerebbe il più debole, il diverso verrebbe subito ridotto all’identico, in una sorta di fagocitosi ove la maggioranza ha per “diritto” i denti più forti ed il “dovere” di regolare il pensiero e l’agire di un’intera comunità.
Leggendo Pasolini ci si rende conto di quanto sia urgente oggi – tra le altre cose – ripensare il linguaggio perché se è vero che la parola è la “babele del pensiero” è pur vero anche che essa rappresenta ancora il modo più concreto per creare relazione.
Necessario allora impegnarsi nella riformulazione di questo linguaggio nuovo e comune in cui sia possibile coniugare la differenza come valore e non come colpa dalla quale redimersi e verso la quale l’unico atteggiamento possibile sia la tolleranza.
Non è più sufficiente parlare di razzismo (in tutte le sue declinazioni), gridare e piangere l’ingiustizia del sistema, poetizziamo piuttosto, “reinventiamo” il linguaggio, solo così rivoluzioneremo il sistema che abbiamo ereditato e che ci veste male, anzi che denuda le nostre deficienze.
Rimescoliamo i colori come fa un pittore ed educhiamo il nostro sguardo alle sfumature, sapremo poi coglierne la suggestiva bellezza anche quando esse ci appariranno vive e palpitanti nell’imprevedibilità dell’altro/simile.
“Egli, quella sera, era di una bellezza da potersi toccare come un oggetto: una luce dorata e minerale che splendeva nell’interno del suo corpo, accendendo più la sua carne molle e tiepida che i suoi occhi. Sotto la lampada elettrica e contro il biancore delle lenzuola, le sue pupille erano divenute più cupe, trascolorando l’azzurro in un indaco velato di rosa. E splendevano, avide…” (P.P.P. op. cit.)
Chi fa esperienza della luce non considera anormale l’oscurità, sa di appartenere tanto al giorno quanto alla notte … chi vive di albe e tramonti conosce l’inafferrabile danza del trascolorare dell’uno nell’altro: forse manchiamo di sguardo e parole, ecco perché tutto ingrigisce dentro la gabbia meschina e impersonale del pregiudizio.
“Se il tuo occhio ti è di scandalo, cavalo …” se, cioè, il tuo sguardo ti restituisce come corrotto ed insano ciò che di fatto non lo è, allora ciò che deve essere curato non ti è estraneo, ma familiare, ti appartiene, è il tuo stesso occhio. L’altro, lo straniero, il diverso misura la sanità del nostro sguardo personale e sociale: vergogna, emarginazione, discriminazione sono chiari sintomi della metastasi di un male da “cavare” prima che diventi mortale.
“Non ho il senso vero del rimorso, della colpa, della redenzione: ho solo un unico senso del destino, ma nel suo farsi precario e confuso. Non per nulla queste memorie mi invitano nelle ore più deserte, quando solo la mia lampadina è accesa in tutta la campagna.” (P.P.P. op. cit.)
Diventare ciò che siamo, questo è il solo destino che dovrebbe tutti accomunarci e ciò che siamo lo cogliamo nell’unicità del darsi del nostro essere insieme qui ed ora.
La politica per non ridursi a mero flatus vocis ed avere ancora senso e valore nella società contemporanea (nella quale ormai si è ridotta ad ancella dell’economia) dovrebbe avere la capacità di mediare il salto tra logica ed esperienza, tra teoria e prassi, costruendo spazi in cui l’ “iosiamo” possa avere luogo per non rimanere relegato –come un sogno – nell’utopico.
C’è chi ancora oggi muore vittima della propria diversità e chi per difenderla la riduce al soliloquio di una minoranza, espiandola come una “colpa” simile ai due protagonisti del romanzo gemellare di Pasolini (Atti impuri – Amado mio) e tuttavia riflettendoci ci accorgiamo che qualcosa è cambiato da allora e anche adesso continua a cambiare … impercettibile nel silenzio interrotto dal frastuono dei tuoni nella notte … come un dettaglio mai visto prima acceso da un lampo improvviso che illumina a giorno la stanza: seppure visibile solo per un attimo non potremo più negare di averne fatto esperienza.
L’indifferenza e non il nichilismo genera aborti: nasciamo morti destinati alla vita e di fronte alla sua infinita e meravigliosa sovrabbondanza disprezziamo tutti quei frutti dei quali non conosciamo il sapore, figurarsi la radice.
Antonella Foderaro
A Rosari
Tu la ciera la ciar a pesa
tal sèil a ven di lus.
No sta sbassà i vuj, puòr zòvin,
se tal grin l’ombrena a è greva.
Rit, tu, zòvin lizèir,
sintìnt in tal to cuàrp
la ciera cialda e scura
e il fresc, clar sèil.
In miès da la puora Glisia
al è pens di peciàt il to scur
ma ta la to lus lizera
al rit il distìn di un pur.
A ROSARIO. Nella terra la carne è greve, nel cielo si fa di luce. Non abbassare gli occhi, povero giovane, se nel grembo l’ombra pesa.
Ridi tu, giovane leggero, sentendo nel tuo corpo la terra calda e scura e il fresco, chiaro cielo.
In mezzo alla povera chiesa è pieno di peccato il tuo buio, ma nella tua luce leggera ride il destino di un puro.
(da Suite furlana 1944-1949)
P. P. Pasolini
CCC
La diversità dell’altro è la maggiore risorsa che abbiamo per arricchirci e per crescere, in un certo senso è la nostra salvezza. Tendiamo a ritenerci perfetti, completamente evoluti e così perdiamo quell’umiltà che serve per mescolarci senza annullarci. Il sentire la voce del differente ci dà il coraggio di dialogare, ma serve l’apertura mentale ed anche una certa eccellenza dell’anima, perché i muri invalicabili nascono sempre dentro di noi, quindi, riflettiamo!
Donatella Quattrone
Uno dei tuoi scritti più belli! Complimenti!
mario caramel
Trovare le affinità nelle diversità e usare queste ultime per capire meglio noi stessi e imparare ad amare il “diverso”
Ciao Antonella, bellissimo scritto