E’ l’album più criptico di Lucio. Volutamente più sussurrato, da decodificare, il miglior esempio di “disco da meditazione” come il buon vino la cui analogia non si ferma solo nell’attenta riflessione che richiede ma anche nel processo di invecchiamento: il tempo lo migliora e appare, in ogni momento, attualissimo nel contesto cui viene ascoltato, mostrando tutta la valenza nella praxis filosofica.
Nel 1974, quando il disco vide la luce, avevo appena nove anni benché attratto, da giovanissimo appassionato del progressive, dalle sonorità incantevoli non ne riuscivo a capire il senso del discorso narrativo anche perchè, come scritto sopra, le parole in alcune tratti del disco appaiono, volutamente, velate e criptate. Solo in tempi abbastanza recenti, pressappoco nell’anno 2000, insieme al nascente interesse per i social network appena nati, ho ri-scoperto un’altra faccia di questo splendido Lp trovando diversi punti di contatto con l’identità digitale dell’utente virtuale.
Apre il disco una sorta di cantilena “abbracciala, abbracciati, abbracciali”. Il riferimento al virtuale è quasi scontato: la quantità di abbracci da regalare e sperare di ricevere, perché anche se virtuali, immateriali, posseggono in sé tutta la forza consolatrice di cui ogni essere umano necessita come uomo sociale. Abbracci sempre meno manifesti nella vita reale si dispiegano con uguale intensità e valore, nella vita virtuale.
(1) “A che punto ero? Forse la psicologia, può spiegare questi strani vuoti della mente mia, ora ricordo parlavo di follia e del grande amore, grande bugia, che ne pensi, dimmi, di un uomo tanto stupido da crederti sua, portiamo a termina la nostra fatica? Allontaniamoci da soli”
I primi approcci nel mondo del virtuale, ritengo, nascondevano dietro la scusante della conoscenza condivisa l’intento di fare nuove conoscenze. Nel normale menage quotidiano familiare si perde sempre qualcosa: intimità, amicizia, la passione che lascia il terreno alla apatica quotidianità. Il sogno svanisce trasformandosi in apatiche bollette da pagare, figli da accudire, preoccupazioni incombenti. Ed ecco che lo spazio virtuale si mostra, ai suoi esordi, come la via di fuga “indolore”, nel più totale anonimato, per sconfiggere il demone dell’apatia e magari per ritrovare un po’ di linfa vitale nella passione ormai assopita.
(2) l’universo che respira e sospinge la tua sfera e la luce che ti sfiora, cosa vuoi?
– Voglio te, una vita, far l’amore nelle vigne, cade l’acqua ma non mi spegne, voglio te…mio per sempre.
La promessa di un amore eterno non si riesca a concepire al suo nascere. Come si fa a promettere qualcosa di eterno se poi, nel frattempo, si interrompe? Qua la riflessione apre due ben distinti spazi. Il primo sembra rivolto dall’interprete (o protagonista della sfera virtuale) alla propria consorte: “tu non cambi mai, un braccio che altro vuoi, l’amore è qualcosa di più del vino e del sesso che dai, sarei una cosa tua da femmina latina a donna americana…la mia mente è una vela tua verso l’altra gente…” E’ il tema, a mio avviso, dell’oppressiva gelosia, del momento di sesso “donato” (come dovere) per legare indissolubilmente (secondo legame come il matrimonio). In altre parole dal punto di vista di lui esiste una sorta di disparità fra ciò a cui egli aspira, come bambino mai cresciuto eternamente da coccolare ed irrimediabilmente incompreso) e ciò che ottiene: un momento di sesso donato, che dovrebbe compensare e che dovrebbe bastare ed avanzare. L’altro spazio di riflessione lascia il campo all’eterno amore tanto ricercato, appunto illusorio ed eterno, trovato nei meandri del web. L’illusorio, qui, non è da intendere, ovviamente, al probabile incontro nel virtuale (peraltro possibile) ma al concetto di eternità. (XXX). Questa secondo spazio di riflessione trova fondamento nel proseguo di “due mondi” dove risulta evidente la ricerca spasmodica dell’eterno amore: “oltre il monte, c’è un gran ponte, una terra senza serra, dove i frutti son di tutti, non lo sai”?
(3) “Anonima la casa, anonima la gente, anonimo anch’io. I frutti nel giardino e i panni nel catino. C’era lei e cos’altro ancora, nascosto il quel fosso, complice il sesso, a misurasi e masturbarsi un po’…”
Con il terzo brano, si entra in palese antinomia sull’idea di anonimato, paradossalmente rivelato all’interno delle mura domestiche oppure all’esterno, in quel grande spazio virtuale che è il web. Renzo Stefanel, autore di una interessantissima nota su Anima Latina, descrive il passo sopracitato come “un racconto vergognoso inconfessabile” (p.127, no reply). Lo stesso tema si riscontra ne “il salame” l’ottavo brano del disco dove l’immaginazione adolescenziale lascia il posto alla prima esperienza sessuale; una pagina musicale ironica che fa scattare, inevitabilmente, un sorriso per l’ingenuità del ricordo.
(4) “La speranza spezzata è la sua eredità, fallimento di una vita di coraggio e di viltà. Troverai sul cammino fango e corruzione. E la voglia tu avrai di sdraiarti al suolo per guardare in un film i colombi in volo”
La parte poetica e magica di Anima Latina emerge già nel quarto brano, ne “gli uomini celesti”. Credo si riferisca agli uomini poetici, quelli sensibili la cui nevrosi è dovuta all’impossibilità di esprimere il loro potente motore emotivo e qualora riuscissero a farlo si devono scontrare, spesso, con diverse interpretazioni dei fruitori del messaggio artistico creando inevitabili frustrazioni. L’uomo celeste, il poeta, l’animo sensibile è combattuto per il normale desiderio di scrivere un libro sapendo bene che emergere da un contesto affollatissimo e competitivo è estremamente arduo ipotizzando, in tal senso, una produzione “come libero autore” dove la libertà segna il riscatto di un pensiero che riesce, finalmente, a dispiegarsi senza alcuna costrizione potendo raggiungere “orizzonti più vasti” come sublimi vette poetiche.
(7) “scende ruzzolando, dai tetti di lamiera, indugiando sulla scritta –bevi coca cola- scende dai presepi vivi appena giunge sera, quando musica e miseria diventa cosa sola. La gioia della vita, la vita dentro agli occhi dei bambini, denutriti, allegramente malvestiti, che nessun detersivo potente può aver veramente sbiadito”.
Personalmente ritengo che il settimo brano che dà il titolo all’album, Anima Latina, ha poco a che fare con tutto il contesto. Per una sorta di continuità con il precedente “il mio caro angelo” forse Lucio ha voluto mostrare l’aspetto primordiale ed originario dell’uomo, il vivere secondo libertà, da pregiudizi e da preconcetti. La sporcizia sui vestiti non è semplice lordura bensì un segno da mostrare con estremo orgoglio di essere unici, liberi appunto e che nulla può (e deve) scalfire (sbiadire) questo modo di essere.
L’alta vetta poetica del disco si raggiunge, invece, con “macchina del tempo” il decimo brano. Il tema è quello della depressione, del suicidio, del scappare da questo mondo per rifugiarsi in un ipotetico altro…già peccato che il ritorno non è assicurato e che comunque rimane un’esperienza che non si può raccontare. Però questo passaggio nell’eden è possibile idealizzarlo sognarlo secondo un poetico pensiero. Magistralmente la poesia di Mogol, veicolata dalla voce del grande Lucio, ci portano verso questo ipotetico mondo senza però prima aver indossato un “mantello alato”.
“Io disperato con un mantello alato sopra un monte corro
e a braccia aperte ed occhi chiusi gettandomi come posso mi soccorro,
vedrò tra il grano i fiordalisi dall’acqua i risi.
D’amor la terra è pregna, anche se gramigna,
il seme..il seme ha..l’esclusività.
E certamente parleranno di sindrome depressiva
o più semplicemente diranno che è morto un altro matto…”
In questa produzione fantasmagorica esiste però l’amarezza, sia nel reale che nel virtuale, che l’estremo gesto non sia capito per quello che è, ovvero come oppressione e repressione in un mondo sempre più stretto contaminato da ogni sorta di angheria e cattiveria e che il suicida era un represso afflitto da sindrome depressiva. In poche parole “è morto un altro matto…”
La stessa amarezza si riscontra nell’ultimo brano, separazione naturale, che presenta quasi una stonatura nel contesto narrativo, con la presa di coscienza che, forse, non serve a nulla combattere contro i mulini a vento e che riuscendo a convivere con la propria situazione il confine tra reale e virtuale si assottiglia e probabilmente anche la nevrosi che affligge l’uomo.
“Se ne andrà molto presto, qualche frutto darà forse ancora, generosa talvolta com’è la natura, ma se avessi il tempo per amarti un po’ di più…”
Oggi, gran parte delle considerazioni scritte appaiono scontate o fuori luogo dato che non esiste più l’anonimato nel web e che potenziali espressioni artistiche è possibili trasmetterle in diversi modi data l’enorme versatilità dei nuovi media e in particolar modo di quel grande aggregatore e social network che è Facebook. Ciò non toglie, comunque, che si tratta di una grande fase della possibilità quella offerta dal mondo virtuale di sperimentare, ovvero, altre dimensioni di realizzazione del proprio sé e di particolari esperienze.
Antonello Bellanca