L’autunno era umido e piovoso e i degenti preferivano guardare la televisione nel grande salone del bar che dava direttamente sui viali alberati della Fondazione. Quella mattina, invece, il sole aveva inondato la terrazza di una luce incredibile. Le panchine erano tutte occupate, mi feci spazio tra le carrozzine e, in un angolo lasciato libero forse perché all’ombra, mi appoggiai alla ringhiera e accesi una sigaretta. La prima boccata di fumo la cacciai in aria con tutto il fiato che avevo, come se insieme al fumo avessi potuto espellere dal mio corpo e dalla mia vita il dolore senza misura che si era impadronito dei miei giorni e dei miei pensieri. Ogni volta gli infermieri entravano nella stanza di mio marito. “Può uscire un attimo, per favore?” Afferravo la mia borsa e scappavo via dall’inferno. Lo chiamavo così il reparto di neuroriabilitazione, stadio successivo per chi usciva dal coma. Sulla porta di ogni stanza c’era un numero di codice, da trenta a cento. Più il numero era alto, più si era senza speranze. Su quel piano erano quasi tutti codice novantanove, come mio marito che oscillava tra lo stato vegetativo e la minima coscienza. Non trovavo, sebbene mi impegnassi, un aggettivo adatto per definire la luce che c’era nell’aria quella mattina. Guardai in giro e, dall’altro capo della terrazza, Ivan sulla carrozzina, spinta da sua madre, mi salutò con un cenno della testa, unica parte del corpo che gli era possibile muovere.” Paralisi permanente dal collo in giù di origine traumatica”. Meno di una decina di parole su un foglio bianco erano bastate per descrivere la tragedia di Ivan. Aveva sui capelli, lunghi e nerissimi, l’inseparabile berrettino blu con delfino bianco e sigla della piscina dove aveva passato i pomeriggi degli ultimi dieci anni della sua vita. La tuta, di due taglie più grande, accentuava la magrezza del suo corpo ancora acerbo di diciassettenne e il pallore del viso minuto, un viso delicato nei lineamenti ma fisso nell’espressione. Gli occhi invece, vivi e inquieti, erano sempre in movimento, sembrava toccassero con lo sguardo ogni cosa per impadronirsene. Sulla terrazza, tutta quella luce dava contorni più netti ad ogni cosa, tutto era più nitido, più palese e io riuscivo a distinguere i rami degli alberi più lontani. Chissà se la stessa luce aveva illuminato la stanza di Ivan, quella maledetta mattina. La immaginai piena di poster, tanti cd, libri pochi, scolastici e tutti buttati da un lato, come a fare spazio a cose più importanti. “Ma è vero che tu sei una professoressa?” mi chiese un giorno. “Non l’avrei mai pensato” “E perchè?” “Ma perchè non ce l’hai la faccia di una prof. E poi tu non sei antipatica”. Ivan era così, ingenuamente schietto e diretto. Buttai via la sigaretta e raggiunsi Ivan mentre il suo cellulare incominciò a squillare, la madre glielo appoggiò all’orecchio ma lui spostò nervosamente la testa da un lato. Non aveva intenzione di parlare con nessuno. In quel momento pensai alle tante cose che Ivan non sarebbe più stato capace di fare da solo. Stropicciarsi gli occhi, soffiarsi il naso, grattarsi le orecchie e poi, asciugarsi le lacrime con il dorso della mano, stiracchiare le braccia, prendersi il viso tra le mani, mordicchiare una matita. Pensai anche che alcuni di quei piccoli gesti sono qualcosa di più che una risposta a bisogni corporali, scaricano le nostre tensioni e insicurezze, ci aiutano ad esorcizzare emozioni e sentimenti più profondi. Ecco, Ivan non avrebbe mai potuto passarsi le dita tra i capelli mentre la ragazzina più carina che avesse mai conosciuto, lo stava fissando con interesse. “Ti va di fare un giro?” mi disse con aria apparentemente distratta. Non era la prima volta, spingevo lungo i vialetti la carrozzina, mentre lui a testa bassa, osservava di sbieco le persone che incontravamo. “Ieri mia madre mi ha portato alle terme” mi disse a un tratto. ”Voleva che facessi il bagno in piscina ma io le ho detto che non mi andava ” “E perché?” “E che ci vai a fare allo stadio se sei cieco?” “Beh, potrei andarci in compagnia di uno che mi racconti la partita” “Questa è bella! Perciò, ieri in piscina potevo portarmi dietro uno che nuotasse al posto mio a pelo d’acqua? Avrebbe potuto spiegarmi cosa si prova a non andare a fondo! Sai che divertimento!” Finiva sempre così con lui, riusciva a farmi sentire inadeguata, qualsiasi cosa io dicessi. Ma come mi era venuto in mente di dire quella stupidaggine! Come se Ivan non conoscesse già la sensazione inesprimibile dell’acqua che scivola sul corpo mentre l’agguanti a bracciate e, con la mente libera da ogni pensiero, non senti più i rumori del mondo, sei solo tu, il tempo e la forza di gravità. Affrettai il passo, la carrozzina sobbalzava sui lastroni sconnessi del viale, il corpo di Ivan, sballottato, aveva qualcosa di buffo e drammatico. Rimanemmo, per un tempo indefinito, silenziosi sotto un ulivo. Sentivo i suoi occhi piantati su di me come chiodi nel legno ma io, fingendo un interesse inesistente, tenevo la testa girata in direzione di due anziane signore vicino a noi che parlavano dei loro acciacchi. “Ivan alzati! Ivan, non fare il cretino alzati, ti ho detto!”, “mi senti Ivan, mi senti?”, “oh Dio, Ivan!” Chissà se aveva sentito le urla della madre mentre, con gli occhi sbarrati al soffitto, immobile, pensava “una capriola, solo una capriola!” Non sentiva dolore, a dire il vero non sentiva neanche più il suo corpo il giorno in cui, tra lui e tutto quello che poteva essere, si era messa una capriola, una fottuta capriola, di quelle che si fanno sul letto, una dietro l’altra e non smetteresti più. Doveva essere una giornata come tante altre, la scuola, quattro morsi a un panino e poi di corsa in piscina per il campionato. E invece, la corsa in ospedale, il suono della sirena, il viso di sua madre e poi una nebbia fittissima e il buio, la mattina che il destino aveva deciso di fare una giravolta nella sua vita. E che poteva saperne, Ivan, che la sua adolescenza sarebbe annegata nel più nero degli incubi! Fra cannule tracheostomiche, cateteri vescicali, piaghe da decubito, pompe a diffusione …“Ivan! Ivan!” Ad un tratto la voce di sua madre si materializzò dal punto in cui iniziava il vialetto. Sobbalzai. La donna veniva verso di noi a passo svelto. “E’ l’ora della fisioterapia, Ivan. Dobbiamo andare in palestra” e con uno scatto girò la carrozzina. Adesso Ivan era di fronte a me e, per un tempo interminabile, i suoi occhi mi fissarono, la loro vivacità strideva con la fissità del suo corpo inerte. In quegli occhi c’erano tutte le domande che l’umanità continuava a porsi da secoli ed io sentii all’improvviso un’inquietudine, un malessere che non sapevo definire. Lo guardai allontanarsi, mentre i miei occhi lentamente si gonfiavano di lacrime che non avevo voglia di piangere, ogni parte del mio corpo era invaso da un dolore che non volevo sentire. Non mi importava niente di Ivan, volevo piangere di me stessa e del dolore senza fine che aveva accartocciato la mia vita. Il dolore io l’avevo incontrato un mattino di dicembre: la telefonata concitata di mio figlio, l’aria ovattata di una sala di rianimazione e mio marito in un limbo dal quale non sarebbe più tornato. Io il dolore l’avevo attraversato e mi aveva attraversata, sparigliando i miei giorni come fa il vento con fogli leggeri sparsi su un tavolo. Questa bestia mi aveva accerchiata e trascinato in fondo a un buco nero dove era annegato tutto quello che ero prima. E adesso volevo piangere, perché nessuno sapeva niente di me, di che cosa erano i miei pensieri. Dovevo piangere perché il dolore mi aveva reso implacabile, aveva pietrificato la mia anima, aveva cambiato la sostanza dei miei sentimenti. Quante volte l’avevo guardato dritto negli occhi! Mi aveva schiacciata fino a togliermi il respiro. L’avevo cercato sotto la pelle, mentre mi lacerava dentro e mi serrava la gola, avevo voluto sentirlo mentre si muoveva nel mio corpo e si impadroniva della mia lucidità per capire con chi avevo a che fare, per spiegarlo a me stessa. Ma il dolore non si spiega, nessuno mai sarà in grado di spiegare per quale misteriosa ragione, anche quando invade ed espugna le nostre esistenze, continuiamo ad essere attaccati alla vita. Ormai era il compagno muto delle mie giornate. Lo temevo e perciò facevo finta di ignorarlo, come si fa con un cane rabbioso che si è messo sulla tua strada e cerchi di schivare, col terrore nel cuore. E poi ti accorgi che sei tu stessa il tuo dolore e, per paura di sentirlo, non senti neppure te stessa, non senti più nulla, nemmeno la pena per la paura negli occhi di un ragazzo di diciassette anni. Dopo che ti ha travolto, hai davanti a te una strada lunga e senza sentieri, devi percorrerla tutta. Anche adesso, continuavo a respirare, a maledire il traffico, a parlare del sole e della pioggia col mio vicino, a stupirmi ancora per i racconti delle mie amiche. E tutto questo non contava più niente per me. Vivi e la bestia è sempre là, ogni tanto arraffi piccoli frammenti di quiete per la tua sopravvivenza ma lui è sempre là, non c’è nulla da fare, nulla, ogni tanto puoi piangere. Ecco, puoi piangere. Mi alzai dalla panchina, accennando un saluto alle due anziane signore. Restai ferma un momento con gli occhi chiusi e, quando li riaprii, tutto era come prima. Guardai davanti a me, poi cominciai a percorrere lentamente il viale che mi riportava all’ingresso, stupita sempre più della luce che c’era nell’aria quella mattina.
Annamaria Sessa