Dritto e rovescio, dritto e rovescio. Sono tre mesi che mi esercito inesorabilmente in questi due semplici movimenti del lavorare a maglia. Ragiono ed eseguo solo questi due punti base che però costituiscono l’alfabeto per costruire qualsiasi altro punto, dal più semplice al più complicato, in un codice binario che sembra mostrare anche altre connessioni. Ebbene questo movimento “avanti” e “indietro” mi ha catturato…e non riesco a fermarmi, con buona pace di mio marito che mi guarda sbigottito in questa veste femminile retrò – domandandosi il senso di tutta questa concentrazione in un lavoro che spesso è stato considerato un semplice passatempo. Cercherò di mostrare come mai per me, e forse per molti altri, non è così. Mentre le mani impugnano i ferri del mestiere, la mia mente si abbandona in riflessioni concettuali profonde: in alcuni momenti mi devo fermare per annotare su un taccuino le idee che si attivano nella mia mente. Mi viene in mente Francesca Rigotti quando nel testo La filosofia delle piccole cose[1] fa riferimento alla manus cogitans, la mano pensante, ma anche all’opera di Jean Piaget quando declinava l’azione di pensare come manipolare idee. L’Epistemologia Genetica di Jean Piaget prima, e l’Epistemologia Operativa[2] di Donata Fabbri e Alberto Munari poi, corrente psico-culturale alla quale appartengo, hanno teorizzato e dimostrato che è l’azione (o meglio il processo di inter-azione) che fa emergere la realtà. E dunque, mi sono detta, perché non provare a lavorare a maglia osservandone le implicazioni cognitive? Se penso alla genesi, cioè a come è nata questa riflessione, per ora solo abbozzata, penso di poterla datare all’incontro con un libro, quello di Serge Latouche, La scommessa della decrescita, in cui si sottolinea l’importanza di riappropriarsi dei gesti di una volta, re-imparando ciò che abbiamo dimenticato: dal confezionarci abiti all’auto-produzione alimentare, solare, ecc. Ho iniziato una riflessione approfondita su questi temi, coinvolgendo le persone intorno a me, cercando di vivere per sottrazione, eliminando il superfluo senza aggiungere. Sono tre anni che ci proviamo, soprattutto in casa, ma decolonizzare l’immaginario[3] non è impresa semplice anche per chi, come me, è alla ricerca di una forma di autonomia del pensiero e dell’azione. Qui il filo del discorso mi porterebbe lontano dai detersivi-fai-da-te all’orto sul balcone, ma rischio di perdermi nella matassa dei pensieri. Torniamo al knitting, come si chiama oggi il lavorare a maglia. Insieme a Miguel Benasayag e Gérard Schmit, condivido la riflessione di descrivere la nostra società come la società dell’ignoranza più che della conoscenza: “il rapporto che ognuno di noi intrattiene con le tecnoscienze che inondano il nostro quotidiano è infatti un rapporto di esteriorità.(…). Ci limitiamo a premere i pulsanti, ignorando il più delle volte quali meccanismi vengano innescati”[4]. Questo per quanto riguarda le tecnoscienze. E cosa dire del resto? Indubbiamente nel mio caso è stato così anche in fatto di lana, ferri e manualità. Mi sono domandata: io sarei in grado di realizzare un maglione, una sciarpa, o qualsiasi altro prodotto fatto a mano? Sarei in grado di cardare la lana o altro ancora? Conosco qualcosa di questi movimenti? E così ho iniziato, grazie alla guida di mani esperte che mi hanno introdotto ai primi passaggi di base: dalla scelta della lana ai ferri da utilizzare. Ed è iniziato il divertimento e una forma di meditazione tutta mediterranea, sempre più coinvolgente e socializzante. Allo stesso tempo, mio marito, compagno di narrazioni e di riflessività, ha proposto la visione di un telefilm post-apocalittico degli anni Settanta, I Sopravvissuti[5], per provare a rispondere a queste stesse domande esplorando un altro punto di vista. Infatti, soprattutto le prime puntate – che consiglio vivamente – sembrano porre le stesse questioni: se si perdesse tutta la conoscenza tecnica prodotta negli ultimi secoli – causa epidemia o qualsiasi altro elemento catastrofico – saremmo in grado di sopravvivere? Io mi sono detta di no. Ho pensato a quante cose so fare, diciamo di natura arcaica, a quanto poco conosco di quella sapienza tecnico-artigianale e questo ha mosso indiscutibilmente la mia curiosità. Da qualche punto bisogna pure partire, trovare cioè un modo per riagganciare il sapere teorico al sapere pratico: uscire dall’astrazione e stare nelle pieghe del quotidiano. Ho pensato al mio contatto con i fili di lana e, francamente, fino a tre mesi fa il rapporto era quasi inesistente! Ho un vago ricordo di me bambina alle prese con i ferri, di un lavoro accantonato e lasciato in sospeso perché non ne capivo il senso o almeno mi pare di ricordare così. Tuttavia un altro dono inaspettato del lavoro a maglia – di questi mesi – è stato proprio il movimento della memoria. Nell’atto di sferruzzare insieme a mia madre, ognuna con il suo gomitolo, la matassa dei ricordi si è dipanata e ho ricordato improvvisamente “una me bambina”, di circa tre o forse quattro anni, con la bisnonna Lucia. L’ho vista davanti ai miei occhi, il grembiule, il sorriso, la mano attaccata a un filo di lana per rammendare, per confezionare un maglione o chissà cos’altro e poi da lì, l’immagine ha preso movimento ed ecco ora noi due, vicine, nell’atto di raggomitolare insieme un filo di lana. Un ricordo dimenticato e riaffiorato nell’intimità famigliare, che ha richiamato alla mente un quadro di Silvestro Lega[6], quello dove madre e figlia sono alle prese con quegli stessi movimenti, in un gioco di luce e affettività calda, famigliare, femminile. E non so, qualcosa dentro si è ricomposto, un frammento che ha dato il via a narrazioni ben più profonde…Ecco perché lavorare a maglia non lo vivo come un passatempo o un perditempo, ma come qualcosa di più intenso: come l’occasione per riappropriarmi del tempo – un tempo lento – per riflettere sulla vita e per riannodare i fili della memoria verso gesti arcaici, quotidiani ormai andati per lo più dispersi. In termini teorici, è anche il tentativo di riappropriarsi di un linguaggio e di una modalità di pensiero che appartengono al nostro inconscio cognitivo. Ma gli spunti riflessivi sono ancora più vasti: dal rapporto con la scrittura al procedere sequenziale del pensiero…. [7] Oggi i siti che offrono consigli per lavorare a maglia sono molteplici: dai video tutorial per apprendere le basi a come aprire knit-café[8]. Vi è anche un lato attivista del lavorare a maglia, se non bastassero le attivazioni mentali che esso comporta, i Knitta, Please[9], una comunità di appassionati che intervengono sul paesaggio con i lavori a maglia, rivestendo antenne della auto in sosta, i pali della città, la segnaletica fino a giungere anche ad alcune pietre della Grande Muraglia. Sono incursioni urbane per togliere il grigio e dare colore/calore alla città…Fare a maglia è un modo di pensare, di guardare la vita e il mondo. Fare a maglia significa percepire il tempo appeso a un filo o almeno è quello che ci vede Davide Rampello, Presidente della Triennale di Milano nella mostra organizzata nel 2009[10], ancora visitabile on line. Una mostra significativa che sembra prestarsi bene a queste riflessioni un po’ annodate.
Barbara Sangiovanni
[2] www.lableo.it
[3] S.Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2007, pp.117-118
[4] M.Benasayag, G.Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004, p.24
[5] http://sopravvissuti.altervista.org/
[6] Silvestro Lega, Educazione al lavoro, 1863
[7] F.Rigotti, Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare, Il Mulino, 2002
[8] http://www.do-knit-yourself.com/knitcafe.html
[9] http://www.magdasayeg.com/
[10] http://www.do-knit-yourself.com/DrittoRovescio.html
Molto bella la tua riflessione Barbara, soprattutto perchè annoda filosofia e prassi a partire dalle piccole cose per recuperare le grandi … e se ne sente l’urgenza, non solo nell’ambito del pensare, quanto del vivere!
Grazie ed a presto leggerti ^_^
Sferruzzando le cose cambiano! Grazie Barbara…