Il concetto di uomo – concepito come progetto, come possibilità –, che va naturalmente chiarito meglio, porta immediatamente con sé, come suo negativo gemello dialettico, il concetto di non-ancora-uomo, non quello di «sotto-uomo», per il quale il «superuomo» non riesce a immaginare altro destino che la soluzione finale.
«Io amo l’umanità, ma ho meraviglia di me stesso: più amo gli uomini, in generale, e meno li amo in particolare, cioè presi uno per uno … Sempre mi è avvenuto che quanto più odiavo gli uomini in particolare, tanto più m’infiammavo d’amore verso l’umanità in generale. Ma se è così, che resta da fare? Darsi alla disperazione?»[1]. No, e perché? È sufficiente passare dal concetto generale (astratto) dell’uomo, alla prassi sociale dell’individuo umanizzato, rompendo una volta per tutte con quell’idea di subordinare la vita del singolo uomo al concetto astratto di Umanità che giustamente irritava Max Stirner, sebbene egli non riuscisse a impostare il problema nel modo corretto. Nella comunità umana nulla sta al di sopra del singolo uomo, perché la cooperazione tra gli uomini non sfugge mai dal loro razionale – libero, umano, sereno – controllo, e perciò essa non ha modo di autonomizzarsi, né praticamente né teoricamente – generando, ad esempio, una nuova Religione, magari «Atea e Materialista».
Dalla totalità sociale l’individuo non può fuggire, semplicemente perché fuori e senza di essa non sarebbe neanche concepibile la sua «ontologica» presenza nel mondo. Si tratta, piuttosto, di estinguere l’attuale carattere totalitario della totalità. Come il problema dell’alienazione non risiede nel lavoro in sé e nella tecnologia in sé, bensì nel loro attuale uso capitalistico, analogamente si pone il rapporto fra individuo e società: esso è regolato, per così dire, dalla qualità (disumana o umana, classista o aclassista) dei rapporti sociali.
Stirner poteva ancora sognare una fuga nella marginalità sociale, a causa della relativa arretratezza nelle condizioni sociali del suo tempo; ma nel capitalismo globale – cioè a dire totalitario – del XXI secolo tutti capiscono che si può fuggire dal sociale solo attraverso un salto nella follia o nella morte, evenienze che peraltro non rappresentano, a mio avviso, ciò che di peggio può capitarci. Il peggio forse ci sta già capitando, e come sempre alle nostre spalle.
Nello Zarathustra il filosofo di Röcken dice che «l’uomo è qualcosa che deve essere superato»[2]; a mio avviso, invece, l’uomo è qualcosa che dev’essere conquistato. Ciò che in effetti va superato è l’attuale non-ancora-uomo, la cui esistenza si estrinseca, come egli osserva ironicamente, sotto il seguente principio: «Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute». Per questo il pensiero radicale deve insegnare non «il Superuomo»[3], ma la possibilità dell’uomo. La Trascendenza, insomma, deve superare tanto il dominio della teologia, quanto quello della filosofia speculativa, se vuole davvero avere delle conseguenze pratiche, coerenti ai due concetti che da sempre la sostengono: quelli della Riconciliazione Universale e dell’Universale Emancipazione-Liberazione.
Scriveva Sergio Cotta: «È necessario – ha scritto Rousseau – snaturare l’uomo, occorre che ognuno rinunci a tutti i propri diritti personali per godere solo di quelli attribuitigli dalla “volontà generale”, poiché l’individuo non è che una “frazione” del “tutto” sociale, e perciò trae significato e valore umani dalla sua appartenenza a codesto “tutto”. Il nuovo valore è pertanto la totalità – un concetto ambiguo, dalle molte facce, la cui fortuna è andata crescendo da Rousseau a Hegel a Marx»[4]. Più che a Marx Cotta si riferisce ai «marxisti», ovvero al Marx della vulgata. Infatti, per il comunista di Treviri la questione si pone nei termini esattamente opposti: la totalità trova significato e valore solo nel dominio dell’individualità, ossia nella piena libertà di ogni singolo essere umano.
Il pensiero marxiano – e comunque ciò vale per il modesto pensiero di chi scrive – non conosce la tripartizione kantiana degli individui in liberi membri di una società («come uomini»), dipendenti da una legislazione comune («come sudditi») e conformi alla legge della eguaglianza («come cittadini»)[5]. Marx immagina la Comunità Umana nei termini di un’Associazione di uomini liberi (liberi, cioè, da coazioni esterne, naturali o sociali, che ne imbrigliano e ne avvelenano l’esistenza fin dalla nascita) i quali non hanno bisogno né di una «legislazione comune» (almeno nelle forme conosciute dalle società classiste), né di una «legge della uguaglianza» (perché vi vige la «bronzea legge dei bisogni»: «a ciascuno secondo i suoi bisogni, ciascuno secondo le sue capacità»).
Abbiamo a che fare, insomma, con l’Umanità Perpetua, per dirla kantianamente, la quale non conosce l’individuo «come uomo», l’individuo «come suddito» e l’individuo «come cittadino», ma solamente «l’uomo in quanto uomo», pupilla della migliore filosofia d’ogni epoca (Kant compreso, ovviamente).
La comunità umana è costruita strutturalmente in funzione di questo dominio umano degli individui. È piuttosto nell’ambito della società borghese che si realizza l’opposto dell’individualismo, dal momento che dietro l’ideologia ultraindividualista si cela il reale annichilimento dell’individuo atomizzato e massificato. Al contrario di Max Stirner, che reagì in modo «piccolo-borghese» alle tendenze centralizzatrici e autoritarie immanenti alla società capitalistica, Marx riteneva possibile la riconciliazione tra l’individuo e la sua comunità, a patto però che fosse assassinata la madre di tutte le magagne: la divisione classista degli uomini, cosa che la stessa società borghese rendeva finalmente possibile in grazia dello sviluppo delle forze produttive sociali (tecnica e scienza incluse) che aveva generato.
Una volta un militante delle cosiddette Brigate Rosse sottoposto a un processo per l’uccisione di un magistrato, interrogato dal Pubblico Ministero intorno alla sua sfera etico-morale («Lei non prova dolore per le vittime della sua violenza?») così ebbe a rispondere: «Signor Pubblico Ministero un comunista non vede uomini ma funzioni». Agghiacciante, non c’è dubbio. Chi dietro la funzione non vede l’individuo che le dà corpo, fa mostra di una disumanizzazione che non ha nulla a che vedere né con la teoria né con la prassi della rivoluzione. E difatti, l’ideologia (che parola grossa!) dei «terroristi rossi» si sviluppò interamente sul maligno terreno dello stalinismo italiano e internazionale, il quale nulla a che fare ebbe mai con il comunismo di Marx. Un motivo più che sufficiente per abbandonare a chi ci tiene le inflazionate qualifiche “rivoluzionarie” che oggi evocano solo miseria e orrore.
Proprio perché sono i rapporti sociali disumani a generare l’universale disumanizzazione del mondo, occorre vedere in chi incarna una funzione per conto del dominio anche una vittima dei tempi, e non semplicemente un fantoccio, un oggetto simbolico privo di quella residua umanità possibile nella società disumana. Ciò che fa del capitalista un «mero funzionario del capitale» non è la teoria critica della società, ma la prassi capitalistica.
Nemmeno la rivoluzione sociale; soprattutto la rivoluzione sociale, se vuole rimanere fedele al suo fine, può permettersi il lusso piccolo-borghese di annientare il Nemico a cuor leggero, passando sopra la sua irriducibile consistenza esistenziale. Essa non deve temere di fare i conti con una realtà che non è fatta di pedine di diverso colore che vengono spostate su una scacchiera, ma di individui in carne ed ossa esposti alla possibilità del dolore fisico, affettivo e psicologico.
Sebastiano Isaia
[1]F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, 1881, I, p.67, I. G. De Agostini, 1984.
[2]F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 280. Qui ritorna il concetto di Ueber-Mensch.
[3]Arthur C. Danto, nel suo Nietzsche come filosofo (1965), consiglia giustamente di conservare l’originale tedesco Ueber-mensch, anziché tradurlo con Superuomo, un termine che rinvia a un concetto che il filosofo tedesco non aveva in mente. Il concetto nietzschiano di Ueber-mensch è l’uomo che trascende il cattivo presente, che va oltre le miserie che lo impigliano in un quotidiano indegno di essere vissuto, che supera se stesso per conquistare una dimensione adeguata al suo concetto. Nonostante pulsi all’interno di una concezione aristocratica del mondo, questo concetto nietzschiano ha una notevole valenza critica, che non è possibile cogliere se non si abbandonano certi volgari pregiudizi intorno alle opere e alla vita di Nietzsche.
[4]S. Cotta, Perché la violenza?, p. 128.
[5]I. Kant, Per la pace perpetua, 1795, p. 24, RCS Libri, 2010.
uno spunto di riflessione
Il principium individuationis, il principio cioè che fonda l’individuo come singolo, è, concettualmente, il prodotto fondamentale del pensiero occidentale.
Si tratta dell’insieme di tutte le rappresentazioni, gli attributi, le qualità, che:
a) distinguono me dagli altri
b) mi confermano come individuo nel tempo, mi dicono che sono insomma sempre io quel giovane che ero, così e così, e quello che sono ora.
L’individuo, per il pensiero occidentale laico e democratico, era ed è fondato lì.
I diritti, oggi scritti solennemente in documenti nazionali e mondiali, sono diritti del singolo, di ogni singolo.
Non esiste spirito del popolo, gruppo sociale o razziale o religioso, che si possa permettere di ledere in alcun modo i diritti del singolo, dell’individuo.
Questo pensiero siamo noi. Noi non siamo eredi dei pensatori del V secolo ac, noi siamo quel pensiero, noi abbiamo inventato la civiltà democratica, la scienza, la filosofia e tutto il resto.
Ed ogni cedimento su questo terreno si paga caro, perché il futuro non è scritto, il futuro non esiste, siamo noi a determinarlo e ne portiamo per intero la responsabilità.
Da dove vengono i pensieri oggi detti fondamentalismi? Su quali concetti fondano le loro affermazioni e poi, di conseguenza, i propri atti?
Non su situazioni di disagio economico e sociale, non su ancestrali diritti conculcati.
Queste cose costituiscono soltanto dei terreni di coltura, non ne sono l’origine.
L’origine è di natura concettuale e riposa innanzi tutto sull’attacco al principium individuationis; è infatti indispensabile per il fondamentalismo scardinare l’individuo. Questo è il primo obiettivo. L’individuo va eliminato e sostituito da qualche altro concetto di natura collettiva, sia esso il Reich o la razza o il gruppo religioso, la classe, di fronte al quale tu, piccolo insignificante esserino, non devi fare resistenza, altrimenti danneggi tutti gli altri componenti del collettivo e vai convinto o eliminato, per il bene di tutti.
Qualche volta si inizia con la critica all’individualismo, foriero di disgregazione e di sventura, per prospettare la preminenza della società. A queste prime frasi dovrebbe scattare in noi l’allarme. Ma, caro signore, di che stai parlando, vorresti dire forse che io non ho il diritto di dissentire, di oppormi, a decisioni, che non condivido? Persino se tutti gli altri componenti della società fossero d’accodo, io continuerò a poter obiettare, e guai a chi si azzarda a tacitarmi. Non penso che dovremmo essere tolleranti con gli intolleranti.
Molte volte, nel passato, abbiamo commesso questo errore e ne sono conseguiti orrori indicibili e periodi di barbarie.
Siamo sempre allo stesso punto, abbiamo le stesse armi che avevano i greci di Grecia, di Ionia, di Italia meridionale, di Provenza, di Spagna meridionale e di nord Africa. La ragione critica e il desiderio di difenderla.
E il modo migliore di difendere la civiltà democratica è attaccare i concetti base del fondamentalismo, sul piano teorico prima di tutto.