«Signori, la visita alla villa è finita!»
Fughe di saloni vuoti, scalette ansimanti, respiri di vetrate, ghirigori di stucchi e intarsi: pagine di un album che i tuoi occhi hanno composto ma che solo la tua memoria a breve termine risfoglierà: come immagini di una vecchia Polaroid che funziona al contrario, le scorri rapidamente prima che si smaterializzino, deludendoti sottilmente. Con loro anche la tua attenzione sbiadisce, e ti ritrovi all’aperto, verso l’uscita.
Non si sa bene con chi si dialoghi durante queste visite, se con se stessi, con le guide o i vicini; le frasi mormoranti rimbalzano perdendosi nell’eco, la vastità le soffoca anzichè dilatarle, risultando circoscritte e banali. Abbracciare a occhiate, camminando, secoli di storia e di vite vissute, riassumere in un aneddoto un affresco epocale e’ come costringere una distesa marina entro un cannocchiale e farla rimbalzare sulla lente, tanto vicina ai tuoi occhi quanto insignificante di particolari.
«C’e’ il labirinto, signori, nel giardino sul retro della villa…potete visitarlo da soli…» e la nostra guida si disattiva come i robot dei film, per riaccendersi nella vita privata.
Il labirinto…visioni di Minotauri e Arianne si affacciano titubanti alle quinte del tuo immaginario; tu vorresti per loro mitologici sfondi marmorei, luminose atmosfere classiche, ma essi hanno qui la credibilità di maschere in cartapesta, finendo presto per ritirarsi e dissolversi su uno sfondo insolito: un ammasso squadrato di siepi verdi, indistinte alla base ma zizaganti alla sommità, verso il cielo.
Fermati ora e metti a fuoco l’ingresso di un labirintico contraltare di verdi, scoperto e rassicurante, immergiti nel suo percorso permeabile alla luce, alla voce e all’aria: la tua solitudine senza ricordi ne sara’ alleviata. Puoi ancora voltarti e sfumare con un battito di palpebre ciò che hai lasciato dietro di te, poi imbocca il vialetto ghiaioso e rivolgiti al mistero fittizio che sa ancora di passatempo, di scherzo gioioso; se allarghi le braccia puoi sfiorare con la punta delle dita corolle di foglioline, fittamente aggrappate a rametti capillari, invisibilmente connessi a fasci nodosi sempre più ispessiti, giù fino alle radici che sfuggendo alle potature si guadagnano un’oscura libertà sotterranea; contando una decina di passi vedi avvicinarsi l’ angolo che segna la prima netta svolta.
Ti sembra ora così familiare questo posto, da pensare che potresti esserci nata ed aver imparato a camminare proprio su questo sentierino, murato da siepi come gli antichi borghi: dentro ci si sente protetti, ma fuori la loro fragilità difensiva appare svelata e sconcertante; meglio allora non uscire e sentire la città-labirinto come una condizione esistenziale, oscillante tra fantasia e realtà…
Intanto però cambi direzione assecondando un gomito ed il primo bivio si apre improvvisamente alla tua scelta.
Il tuo passo rallentando si fa lungo, ad esso si sovrappone un passetto veloce, uno scalpiccio di cucciolo, ed un folletto ti sfiora sorpassandoti, ti prende la mano lanciandosi avanti e trascinandoti leggermente; ridete entrambe, tu e il folletto femmina dal viso ambrato, dalle braccia e gambe paffute: ancora unite da un invisibile cordone ombelicale, potete concedervi qualche accelerazione o rallentamento individuale, ma dovete confrontarvi continuamente. Eppure sembra che ne traiate grande armonia. Ti chiama per nome e non mamma il folletto in cerca di libertà: a tre anni è già in corsa verso la tua trentenne giovinezza, spesso ti prende per mano e ti conduce nel giardino labirintico del gioco, dove si trova sempre una via per tornare sui propri passi e ricominciare, oppure attraversarlo e trovare l’uscita dalla parte opposta.
Il sole gioca con le prospettive angolari delle siepi, alternando scorci densi di foglie, quasi neri, a rarefatte geometrie di liquida luce verde. Il cordone ombelicale invisibile, la vicinanza quasi simbiotica vi difendono dal pericolo di allontanarvi, di smarrirvi reciprocamente, anche solo per poco; ma hanno senso in un viaggio appiedato, nel cammino terrestre che muove i suoi passi sul suolo. Se tu ora alzando lo sguardo scorgessi il labirinto sopra di te, anche il tuo mondo interiore, sconvolto e rovesciato, dovrebbe adattarsi alla nuova prospettiva. Ed anche il tuo rapporto con lei.
Lei ormai ti sfiora la spalla coi capelli ed è in piedi accanto a te, ma rivolge lo sguardo nella direzione opposta alla tua; attorno a voi si sono alzate severe pareti affrescate, che narrano storie maestose imprigionate nella loro circolarità, pausate da rari finestroni opachi ed interrotte da porte spalancate sui secoli. La vostra attenzione è attratta da un labirinto riprodotto sul soffitto, dove listarelle di legno dipinto si dispongono ossessivamente ad angolo retto fra loro, in un saliscendi di gradini escheriani, di percorsi scalari: metamorfosi di onde pietrificate, inquietante oceano dove lo sguardo e la ragione si smarriscono. Ciascuna ha scelto un personale punto di partenza ed ora procede su un diverso itinerario, curioso e stimolante all’inizio, poi sempre più evasivo e straniante, ora finendo in fondi ciechi, ora perdendosi in ripetizioni vane, ora urtando l’orlo perimetrale. Ti accorgi che è apparente la libertà di muoverti con lo sguardo, sospingendo un’altra invisibile te stessa lassù a strisciare a zig zag, sfidando la legge di gravità e -nella sua metafora- il tuo destino; è faticoso cercare una rotta mentale e intanto con l’anima cercare di intuire l’altra rotta, quella che si dipana a pochi, ma già lontani passi da te, eppure nella loro eco silenziosa così vicini al tuo cuore.
Sola e pacata, vuota di ricordi, eri entrata nel piccolo labirinto verde; accompagnata da una forza evocativa di immagini e simboli ne sei uscita più viva e turbata: l’hai percorso sovrappensiero, tesa solo ad uscirne, ed ora non ha senso ripercorrerlo a ritroso, nemmeno interiormente, nemmeno in una diramazione, nemmeno nelle conseguenze ormai svelate delle scelte avvenute. Con lo sguardo cerchi attorno a te un appiglio prospettico, un volume definito e solido contro cui appoggiare, almeno per un momento, la tua fatica interiore prima di riprendere il cammino; oppure una nicchia dove raggomitolare la tua ansia e lasciarla addormentata. Il giardino invece si apre su un’indefinita vastità tappezzata di ondulazioni muschiose, da cui si innalzano rari, enormi tronchi dalle larghe e rade cime, lontane e gloriose nella luce. Da un albero all’altro sospingi, a tappe, la tua ricerca che approda infine al muro di cinta, a una certezza relativa, racchiusa in se stessa; il labirinto dai tanti volti, giardino o soffitto, percorso pavimentale o foresta di colonne, ruotare di costellazioni o immobilità di monoliti, continuerà a riproporsi enigmatico sovrapponendosi ad ogni momento della tua vita.
Fuori dai percorsi abituali il tuo istinto, vigile a cogliere guide inespresse e magie sottili, precede il tuo sguardo a scorrere lungo la cinta muraria cercando un segno, un indizio… ed ecco, laggiù all’angolo, un tratto di mura assumere un differente colore, una tessitura diversa; mattoni e pietre, malta e terra di supporto, polveri rubate e depositate dal vento… eccoli, tutti a velare e svelare un fantasma redivivo: la facciata di una chiesa ormai inesistente, quasi assorbita dai conglomerati della cinta ma ancora distinguibile; frontone sbiadito, orbita vuota di un rosone a incorniciare nuvole scorrenti, portale dai fregi consunti, assi inchiodate tra loro sul nulla. Cancellato l’edificio (dall’incuria? dai troppo rapidi cambiamenti?), la facciata gli sopravvive risucchiata dalla muraglia, come un fiore stentato che trae nutrimento dalle crepe di una lapide: atomi di pietra cui somministra gocce di linfa un’aliena entità di vita.
Scorgendo nell’ombra lo scendere di una gradinata fino ai tuoi piedi, ne accarezzi con lo sguardo il folto rivestimento di una giungla d’edera; dilatando i tuoi sensi puoi avvertire il suo verde, leggero stridere serpentino e avvolgente, che attira il tuo sguardo su per gli scalini, dove il piede non può poggiare, uno dopo l’altro, ancora su fino in cima, attraverso il sagrato. La porta, chiusa, ti attende.
Laura Savazzi
“Ciò che è fuori di te è una proiezione di ciò che è dentro di te, e ciò che è dentro di te è una proiezione del mondo esterno. Perciò spesso, quando ti addentri nel labirinto che sta fuori di te, finisci col penetrare anche nel tuo labirinto interiore.”
Haruki Murakami
C’ero anche io nel labirinto! 🙂
Che dire davanti alla bellezza di queste tue righe che sono riflessione,di questi tuoi versi che sono poesia.Meravigliosamente scritta,raro trovare un talento come il tuo.
Ammirato…