
Paul Klee, Flower-Myth, 1918
Sempre più spesso mi trovo a riflettere sul valore della versatilità, una qualità piuttosto rara perchè presuppone non solo una vivace intelligenza, ma anche una buona dose di umiltà, consapevolezza e fiducia in se stessi.
Non possiamo dire, a mio parere, di essere persone versatili, finchè ci muoviamo solo nell’ambito delle nostre conoscenze, nel nostro ambiente, all’interno dei nostri schemi e ordinari parametri di giudizio, seppure capaci di destreggiarci in settori diversi.
L’autentica versatilità non può ridursi alla “capacità di dedicarsi con successo a cose diverse”, perchè questo ne sminuirebbe il valore riconducendolo a qualcosa di quantificabile: più cose diverse riesco a fare, più sono versatile.
E se facessimo la stessa cosa, ma in modo nuovo? Se riuscissimo a reinventare noi stessi mettendoci in gioco in una cosa mai fatta prima? Se sfidassimo il luogo comune dei nostri stessi schemi mentali per essere pionieri di novità destabilizzanti che ci costringono a riformulare, ricostruire, rivedere la nostra stessa personalità?
Credo che questo tipo di versatilità mentale sia indispensabile e sia la chiave per immaginare il nostro “io” coniugandolo al futuro, lasciandolo aperto alla fatica del cambiamento. La versatilità infatti non è una pillola magica che ci permette di saper fare qualcosa che altri non sanno fare, ma un “habitus” all’audacia del cambiamento grazie al quale non perdiamo la nostra identità, ma ne maturiamo una nuova, diversa. La novità che adesso ci rende insicuri potrebbe essere la base di sicurezze nuove sulle quali crescere o perchè no, dalle quali prendere distanza.
Mi chiedo, se è veramente questa la versatilità, sarà opportuno dirlo in giro in questi tempi in cui la sicurezza sembra l’unico obiettivo di una vita equilibrata, in cui non si permette a nessuno di metterci in discussione per paura di scoprirci nell’errore, in cui si attacca e si offende piuttosto che accettare evidenze, in cui la verità che dovrebbe farci liberi viene ridicolizzata e in cui si accetta un “ipse dixit” al posto di un altro pur di non disilludersi.
Eppure dovremmo essere grati a quanti ci mettono in discussione come la Szymborska scrisse in “Devo molto a quelli che non amo”:
(…)
E’ merito loro
se vivo in tre dimensioni,
in uno spazio non lirico e non retorico,
con un orizzonte vero, perché mobile.
Antonella Foderaro