Busto di Giano conservato presso i Musei Vaticani
Scavare a fondo nel linguaggio, fino a decostruirne e ricostruirne il profilo semantico, ci consente di cogliere il senso profondo delle parole, che spesso sfugge al loro uso consueto. Scopriamo così, ad esempio, che il significato originario di “straniero”, ci rimanda alla stessa radice da cui provengono i termini nemico (hostis) e ospite (hospes < hosti-pet-s)[1].
A partire proprio da questo significato originario, risulta evidente la natura ambivalente dello straniero che, simile alle due facce della stessa medaglia, può nascondere in sé o il nemico da rifiutare e osteggiare o l’estraneo da ospitare e accogliere.
Proprio perché imprevedibile, la figura dello straniero risulta inquietante sin dalla sua prima apparizione, lui è, in prima istanza, lo sconosciuto, colui con il quale non ho ancora avuto il tempo di entrare in relazione e in sintonia e dal quale, dunque, posso aspettarmi di tutto, una carezza così come un pugno.
Ma soprattutto, lo straniero, anche dopo quel lasso di tempo a cui ci siamo abbandonati per far sì che la relazione accada, è e rimarrà sempre l’altro da me[2], il diverso da me, colui che ha una storia diversa dalla mia, pensieri diversi dai miei, un vissuto diverso dal mio, è l’altro e non io!
Una differenza intrinseca e in quanto tale, ineliminabile, che proprio in virtù della sua irriducibilità, può soltanto essere accolta o rifiutata, senza lasciare scampo ad alternative. In altri termini, non è possibile ridurre lo straniero, ovvero l’altro, all’io, renderlo, a tutti i costi, come me, non è possibile ridurre la differenza che intercorre tra di noi, o lo accolgo con tutto il “suo mondo” ospitandolo nel “mio mondo” o non lo accetto nella sua differenza, facendogli guerra[3].
Ma a questo punto il discorso diventa veramente molto più complesso di quanto possa sembrare, se da un lato, lo straniero deve essere accolto, dall’altro lato, lui deve lasciarsi ospitare, la sua natura deve essere quella dell’ospite e non del nemico. Insomma, se non vogliamo cadere in falsi buonismi o ingenuità, affinché ci sia accoglienza, è necessaria la buona disposizione di entrambe le parti, l’ospite e l’ospitante, in fondo, entrambi stranieri l’uno all’altro.
E infatti, la storia e la vita di ogni giorno, ci insegna che è proprio la mancanza di “buona disposizione” verso l’altro, il diverso da me, che sta alla base dell’ostilità. Una diversità che può riguardare qualsiasi “fattore”, può essere una diversità estetica o di provenienza o culturale o sessuale o religiosa o semplicemente di abitudini, di educazione o ancora una diversità caratteriale. Ma in tutti questi casi, il problema è sempre lo stesso, la buona o cattiva disposizione verso l’altro. L’una conduce all’apertura, al dialogo e, al di là di ogni immaginazione, alla possibilità di perfette “alchimie” tra differenze, l’altra apre la strada al pre-giudizio, alla chiusura nel proprio mondo con la presunzione che sia l’unico giusto, e alla conseguente immunizzazione da ogni pericolo che può derivare dall’ignoto e mettermi in discussione. E così assistiamo, quando non ne siamo inconsapevoli protagonisti, a continue lotte contro il presunto “nemico”[4] che minaccia la nostra “casa”, una casa che può essere il proprio paese, ma può anche essere la propria “casa di idee”, che, inevitabilmente, non entrando in relazione con la realtà dell’altro, diventeranno ideologie (discorsi fondati su idee, quindi discorsi astratti, quanto mai pericolosi) e pre-giudizi; e non è questo forse ciò che sta alla base della violenza con cui alcuni cattolici fanno guerra ad appartenenti ad un altro credo, alcuni atei ai cattolici, alcuni non credenti ai credenti, alcuni di sinistra alla destra e viceversa, alcuni musulmani ad altre religioni, alcuni bianchi ai neri e così all’infinito? Fin quando non ci si accorge che tutti questi “alcuni”, anche se apparentemente appartenenti a categorie diverse, in fondo, sono fatti della stessa identica “pasta”, che ha il sapore del pregiudizio, della presunzione, dell’ideologia e soprattutto della chiusura, una chiusura che rifiuta l’altro da sé e non consente il “passaggio” nudo per eccellenza, quello da uomo a uomo, ma fa ragionare solo per categorie, e così, esistono “i cattolici”, “gli atei”, “quelli di sinistra”, “quelli di destra”, “i musulmani”, “i neri”, “i bianchi”, “i ricchi” e infinite altre categorie che ci fanno perdere di vista l’uomo nella sua nudità. Una chiusura nella propria categoria di appartenenza che, paradossalmente, si fonda tutta su un’identità che per esistere e affermarsi ha necessario bisogno di un nemico da combattere e il nemico è colui che non è come me, che non appartiene alla mia categoria, colui che non la pensa come me, che non vive come me. Ma è forse indispensabile essere identici per poter dialogare? È forse indispensabile essere identici per relazionarsi? Non credo, in tal caso marciremmo nel nostro essere sempre la stessa cosa. Il vero incontro può attuarsi solo tra due identità distinte e separate, che proprio in virtù della loro “separatezza” sono in grado di aprirsi l’uno l’altro, dando vita ad imprevedibili “alchimie”, due identità ben definite, che mai si sognerebbero di farsi violenza, né tanto meno si sentirebbero violentate, ovvero costrette a fare qualcosa contro la propria volontà, sol perché ospiti in una “casa” che, non essendo la loro, ha “abitudini” diverse, due identità che non confonderebbero il rispetto per ciò che è altro da sé (straniero appunto) con la negazione o il tradimento di sé. Come accennavo poco sopra, l’ospite e l’ospitante devono costantemente scambiarsi di ruolo perché la relazione accada, l’ospite deve lasciarsi accogliere senza la pretesa di ridurre la casa dell’altro alla propria, ma piuttosto, con il rispetto insito nella natura stessa di un vero ospite, e questo significherebbe già essere anche, in un certo senso, ospitanti con chi mi accoglie, lui accoglie la mia differenza e io accolgo la sua differenza, senza sentirmi minacciato da alcunché, dal momento che la mia differente identità non viene di certo meno per il rispetto che ho nei confronti dell’altro, né dipende da quanto gli faccio guerra, trasformandolo in un nemico.
Solo nella differenza è possibile la relazione, e questo la dice lunga sia sulla violenza all’altro, per eliminarlo o renderlo come noi, sia sulla violenza che si fa a se stessi, alla propria cultura o tradizione o educazione o alla propria storia, al proprio vissuto, con la presunta convinzione di dare, in tal modo, spazio allo “straniero”, di accoglierlo. Non è necessario fare “tabula rasa” per accogliere qualcuno, non è necessario il deserto, una terra, per così dire, neutrale, l’alchimia è possibile solo nella differenza, tra mondi diversi, ognuno con ricchezze diverse. Lo straniero è ogni uomo, tutti siamo, dunque, chiamati ad essere ospiti ed ospitanti al tempo stesso, aperti all’ignoto, all’estraneo, un’apertura che, lungi dall’essere una minaccia alla mia identità, piuttosto, le restituisce tutto il suo senso, che è quello di un’identità “umana”, la cui unica difesa è la sua stessa “nudità”, un’identità priva di pre-giudizi, che oltre ad essere, quest’ultimi, dei giudizi privi di fondamento, sono anche delle “condanne” eseguite ancor prima della sentenza. Quell’apertura che mi consente di guardare l’altro dritto nelle “palle degli occhi” e, senza nemmeno una parola, farmi dire semplicemente:
guardami, ti prego guardami, non chiedermi e non chiederti se sono cattolico, ateo, musulmano, nero, bianco, maschio, femmina, analfabeta, intellettuale, non soffermarti sul mio velo, sul mio abito da prete o da rabbino, ti prego non giudicarmi se ho le scarpe bucate o se indosso un “rolex” da 2000 euro, non chiederti nulla, guardami anche se non sono particolarmente piacente e, se sono bella, guarda oltre la mia bellezza affinché io impari a non rimanere prigioniera di essa, ti prego non condannarmi se non ti sembro un uomo del tutto coerente, non mi sarà d’aiuto la tua condanna, ti prego non farmi sentire come un povero imbecille che ha bisogno di essere “illuminato”, i tuoi consigli senza il tuo amore rimarranno parole vuote, semplicemente guardami, entra nel mio mondo e fammi entrare nel tuo, magari, un giorno comprerò delle scarpe nuove, magari se mi sentirò profondamente amato, imparerò pure a fare a meno del mio “rolex”, magari impareremo insieme ad essere uomini coerenti, magari un giorno ci capiremo meglio, magari entreremo in empatia nonostante le nostre inevitabili differenze, se solo ci daremo tempo, ti prego non farti alcuna idea di me, semplicemente amami, vivimi.
Patrizia Ferraro