(Immagine John Malkovich)
Questa non è la terra desolata di Eliot, qui il figlio dell’uomo non trova più neanche le immagini infrante. È una terra piena d’incognite che respira lentamente l’odore del pianto. Ciò che abbiamo sepolto non è un ricordo o un dolore, le radici non s’afferrano o crescono, qui il tempo ha soffocato ogni briciola di sensibilità. Siamo completamente immersi nell’insensatezza, mela di un unico peccato, l’indifferenza. Guardiamo il silenzio con un rumoroso sentire, stolti nel nostro unico agire così il cuore non si trova più nella luce ma nel buio più profondo. Eppure la terra non è un luogo per perire ma per ritornare, dimora di un esistere senza limiti. Temere la morte per l’acqua è il comune percepire del vedere, ma vediamo soltanto ciò che vogliamo e vogliamo soltanto ciò che non siamo. Nemmeno i tronchi vanno alla deriva, sono spenti come nuvole rosse, nebulose di un fragile divenire, aperti all’arida malsana falsità. Brulica l’ardore del cambiamento, brucia il sapore del finimento ma la distesa di terra è diluita come un vecchio testamento. Con le mani scaviamo in cerca del nostro sorriso, cumuli di immagini disseminati nel tremore del vivere, ostaggi del nostro stesso gemere. C’è solo roccia, ovunque, l’acqua è un pallido abbraccio perduto mentre il secco sterile tuono imperversa sulle nostre teste. Il suono dell’acqua è un attimo di resa, il tempo non può girare la chiave perché la prigione è sommersa di sassi. Si potrà mettere ordine alle proprie terre? Difficile trovare l’ordine nel caos del proprio essere ed è ancora più arduo trovare il proprio essere. È una materia intangibile il disegno del vivere, specchi rotti con riflessi di luce battenti. La polvere soffia incessantemente sulle pietre di frontiera, il vento ormai è solo uno spiffero flebile mentre la paura si è seduta in attesa di un riscatto. Il figlio dell’uomo non trova più il senso perché le ossa sono nascoste in un posto che non ricorda, con le mani scaviamo ma l’essere è lontano…
Francesco Colia