« Se potessi dirlo non lo danzerei … » (1)
Cosa comporta il dire?
Qual è il prezzo da pagare?
Quando stai male, quando provi quel tipo di sensazione che fa scaturire dentro di te un’angoscia senza nome, straziandoti fino a lacerarti l’anima, ti senti come bloccato, non riesci ad accedere alla parola, subisci il terrore dello smarrimento e pensi di non potere controllare ciò che accade proprio perché ti avvolge in maniere diffusa, non concreta, poiché non si tratta affatto di un male localizzato in una precisa regione corporea.
Tutto ciò può far sperimentare una pericolosa sensazione d’impotenza che trasforma i nostri scenari mentali in selvagge e sperdute lande, terre d’approdo ideali per il disagio psichico che si presenta senza preavviso, come una specie di “ospite oscuro” inatteso, senza volto né nome.
Non essendo connotato, inoltre, da un sintomo preciso, la sua natura sintomatologica segue “un’incarnazione” individuale che muta al variare delle menti e dei loro funzionamenti.
Ci si può sentire immobili nel bel mezzo di una frammentazione che dilania e ammutolisce, perseguitati da fantasie mortifere o incastrati in rigidi circuiti ossessivi come topolini dentro minuscoli labirinti senza via d’uscita.
Tuttavia la sottile linea rossa che attraversa le dinamiche di questo tipo, pare confluire in disorganizzati percorsi mentali che fanno andare in tilt le nostre risorse di pensiero: è come se ad un tratto il nostro paesaggio mentale fosse popolato da proto- pensieri persecutori, ovvero idee, fantasie, immagini alle quali non riusciamo a dare un senso, ma che ci terrorizzano a causa della loro bizzarria, poco o per nulla traducibile in linguaggio.
Il non senso dell’indicibile, dunque, pare essere una delle principali connotazioni di tale disagio, veicolare significati attraverso le parole diviene, pertanto, uno stato di necessità.
Tutto ciò può essere molto penoso da sopportare come si può osservare, ad esempio, all’interno di contesti quali quello delle relazione analitica, terapeuta – paziente, o quella dei gruppi terapeutici, nei quali il linguaggio attraverso le libere associazioni o le catene associative dei pensieri, offre nuove possibilità di comunicazione, di relazione con l’altro, il non me, il diverso da me che abita in noi:
« Stranamente lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità. Riconoscerlo in noi ci risparmia di detestarlo in lui stesso, lo straniero comincia allorquando sorge la coscienza della mia differenza e termina quando ci riconosciamo tutti stranieri. » (2)
Accogliere dentro di noi l’alterità potrebbe permetterci d’integrare le ambivalenze oggettuali: in ogni cosa c’è il bene e il male, sono prerogative che coesistono in quanto tali, considerarle come parti integrate e non scisse, probabilmente ci darebbe più strumenti in direzione di un maggiore equilibrio.
Riporto a seguire, uno stralcio di seduta di gruppo composto da sei pazienti affette da disturbi del comportamento alimentare, da me condotta, con cadenza settimanale. Si tratta di una seduta di ripresa a seguito di una pausa estiva, nella quale le ragazze presenti erano due: Marta, 28 anni, obesa e Clara, 33 anni, ex anoressica (i nomi utilizzati per distinguere le pazienti sono di pura fantasia):
« Ci sediamo come sempre in assetto circolare, attorno a noi ben quattro sedie vuote.
Osservo che mentre la postura e il volto di Marta sono privi di espressione, quasi come fosse immobilizzata, Clara palesa smorfie di contrazione sul volto, digrignando i denti e chiudendosi su se stessa.
Cala il silenzio e penso che non deve essere facile per loro riprendere e soprattutto farlo con tutte queste assenze.
Clara: io quest’estate non ho fatto altro che pensare, pensare, puntandomi il dito contro … saltavo, ogni giorno, almeno un pasto e m’imponevo di non mangiare tenendo la fame sul filo di un rasoio, non volevo riempire lo stomaco … avevo bisogno di tenerlo vuoto e inventavo un sacco di scuse … tipo che avevo la nausea del cibo dato che ci lavoro ogni giorno a contatto … non tolleravo proprio l’idea della pancia gonfia … sentivo un’oppressione … non concreta, molto astratta .. forse metafisica .. boh non so .. forse nel cercare di spiegare ciò che intendo sto facendo un discorso troppo astratto …
Conduttore: beh forse lo sta facendo anche adesso?
Clara: cosa?
Conduttore: puntarsi il dito contro?
Marta: io lo stavo giusto pensando … ma devo dire anche un’altra cosa … per come la vedo io … nonostante tu stia soffrendo, forse … devo dire la verità … insomma, io provo molta invidia per te … perché riesci a vincere la lotta contro la fame, sei tu la vincente … io perdo sempre e m’ingozzo … rimaniamo sempre solo io e il cibo e tutto attorno è come ovattato …
Clara: devo ammettere che anche io mi sono sentita vincente in questo … controllare il mio stomaco mi fa sentire che almeno qualcosa di mio riesco a gestirlo …
Conduttore: stomaco vuoto, mancanza, assenza di qualcosa o forse il lasciare vuoto può fare posto a qualcosa, accogliere qualcuno …
Clara: quand’ero piccola mio padre si divertiva a prendermi in giro diceva che ero grassa, l’ho già detto, che avevo il culo di cameriera … ma io allora non riuscivo a non mangiare … ero una perdente …
Il volto di Marta s’incupisce, sento un’atmosfera carica di oggetti emotivi che non voglio fare disperdere e propongo loro un’immagine:
Conduttore: mi viene in mente l’immagine di uno specchio bidirezionale … da un lato c’è Clara che si riflette puntandosi un dito contro, dall’altro Marta che si specchia di spalle … lei non vuole guardarsi, tutto è ovattato, come se fossero gli altri a farla sentire in colpa, non lei, lei che non: se Clara avesse vinto la sua battaglia perché mai dovrebbe stare così male adesso? Come del resto stiamo già sperimentando, pare, che giudicarci non ci aiuta a capire, mentre se proviamo a capire le cose che ci tormentano forse così le possiamo trasformare …
Marta: mi viene in mente che quando partii per andare in America mia madre mi fece dei panini imbottiti … fu durante quel viaggio che lei morì, … mentre mangiavo quei panini sentivo che dovevo finirli sebbene non ne avessi voglia, fu una sensazione stranissima, pensai che era l’ultima volta che li avrei mangiati e non sapevo neanche perché facevo quel tipo di pensiero … poi seppi di mia madre …
Nel gruppo ritorna il silenzio, le vedo molto turbate e decido di parlare:
Conduttore: forse il cibo che ci riempie, ci svuota anche …
Il volto di Marta comincia a mutare, palesando profonda sofferenza fino a scoppiare in lacrime
Marta: sentivo dentro un senso di solitudine infinito ed è quello che spesso sento ancora
adesso … la mia paura più grande è quella di restare sola …
Clara: io a volte, invece, vorrei tanto essere sola, mi sento così affollata da me, dai miei pensieri, dagli occhi degli altri … forse niente avviene per caso … e io intanto continuo a distruggermi le gambe … a punzecchiarmele … e magari è pure vero che non vinco niente non mangiando …
Conduttore: paura di stare soli e paura della folla … probabilmente siamo alla ricerca di una giusta distanza … il cibo pare avere una duplice funzione per noi: da un lato riempie un vuoto, dall’altro svuota un pieno affollato … “magari” per potere accogliere, come dicevamo prima…
Marta: mi chiedo se riusciremo mai a cambiare le nostre vite a migliorare o se ci ritroveremo qui, ancora insieme, tra vent’anni, con i capelli bianchi e i girelli …
Entrambe scoppiano a ridere, io sorrido loro e concludendo la seduta aggiungo:
Conduttore: riflettevo sull’immagine appena proposta da Marta: tutte noi vecchiette tra vent’anni… Ebbene, se ci pensate non viene proposta una dimensione solitaria, al contrario, una visione d’insieme, di un gruppo che a quanto pare non è solo presente adesso nella nostra mente, ma viene proiettato nel tempo, nel futuro, attraverso una modalità interessante che caratterizza uno dei nostri obiettivi terapeutici: la ricerca della nostra autenticità. I capelli proposti dall’immagine, infatti, sono bianchi, dunque, non nascosti dall’artefatto di una tintura, ma lasciati allo scoperto, naturali: così come “natural – mente” cerchiamo di essere qui, insieme, co-costruendo la nostra cura.
Saluto le pazienti e mentre mi congedo da loro, leggo sui loro volti una resistenza a lasciare la stanza quasi volessero continuare, forse, a dare voce a dei nuovi pensieri tradotti.»
Attraverso il frammento clinico raccontato ho cercato di descrivere quanto possa essere difficile raccontarsi: uscire dalla trappola dell’auto-referenzialità, infatti, può diventare escamotage di sopravvivenza, ognuno col proprio codice linguistico, dentro poliedriche combinazioni differenti, destreggiandosi con cura tra le fitte maglie dei significati e i significanti.
Grazie alla manifestazione del “verbo” s’intravede uno spiraglio di libertà da quelle che erano state per lungo tempo le prigioni delle difese, claustrofobiche e soffocanti che, con la loro funzione ambivalente, avevano illusoriamente protetto ma al tempo stesso bloccato, con costruzioni di barriere rigide e invalidanti.
La conquista delle parole mancate permette, dunque, l’apertura di un varco, consentendo nuove possibilità di respiro, attraverso strette feritoie, dolorose ma necessarie, seppure lancinanti, in quanto catartiche.
« … Il dolore e il lutto cercano … occhi e … bocca, finalmente liberi dalle catene di una luce che esclude il suo rovescio simmetrico, per farsi specchio e visione, per seminare nella nudità del giorno il loro carico di spine e di memorie, la loro sete inappagata di riconciliazione» (3)
Una riconciliazione diviene, pertanto, necessaria e funzionale all’adattamento per sentirsi parte di un tutto chiamato universo relazionale.
Il primo passo per procedere in questa direzione deve essere, tuttavia, suffragato dalla consapevolezza del disagio psichico: attraverso la presa di coscienza è possibile co-costruire col terapeuta la cura.
Con la capacità empatica di contenimento e di accoglienza tipica delle madri che sintonizzandosi coi propri piccoli bambini, riescono a fantasticare assieme a loro, il terapeuta prova a stare nella relazione con i pazienti, tentando di sperimentare ciò che W. Bion (4) definì un «contenitore», una «pelle psichica», dove il paziente può apprendere dalla propria esperienza emozionale, sentendosi capito e iniziando a capire se stesso.
Ma per farlo, per capire da dentro il nostro disagio, e, quindi, affrontarlo, curarlo, bisognerebbe affondare nelle sabbie mobili del dolore e contattare la nostra intelligenza emotiva, cercando di eludere «la morte della personalità» (4). Sarebbe auspicabile tentare di predisporsi ad una mentalità elastica, aperta al flusso delle emozioni: provare un profondo dolore, soffrirlo, ci consente di connettere i significati delle cose che ci tormentano con i loro significanti, apprendendo la tolleranza delle nostre più intime e tormentate frustrazioni:
«… Il paziente che non soffre il dolore non riesce neppure a “soffrire” il piacere, il che gli impedisce di usufruire di quegli incoraggiamenti che altrimenti potrebbe trarre da momenti di sollievo casuale o non casuale. » (5)
Dalla danza, dunque, quale unica possibilità espressiva dell’indicibile è possibile muovere in direzione del linguaggio del cambiamento e della cura, fatto di conoscenza, riconoscimenti, ritrovamenti di oggetti perduti nel mare infinito di un inconsapevole da ri-significare per ri-attuare la narrazione della nostra storia, consentendo così, alla crisalide del disagio psichico di trasformarsi in una farfalla per potere finalmente spiccare il volo.
Daniela Ancona
Note
- Isadora Duncan, La mia vita, Roma, Dino Audino, 2003.
- Julia Kristeva, Stranieri a sé stessi, 1988, Milano: Feltrinelli, 1990.
- Lucetta Frisa, Sonetti dolenti e balordi e altre poesie, CFR Edizioni, 2013.
- Bion W., W. Bion, Esperienze nei gruppi, 1948, Roma: Armando Editore (collana Psicologia, Psicologia Clinica), 2009.
- Bion W., Attenzione e Interpretazione, 1970, trad. it 1973, Roma: Armando Editore (collana Classici), 2010.