(Immagine Joan Miró)
XXVIII – LA MONETA FALSA
Mentre ci allontanavamo dalla tabaccheria, il mio amico fece una diligente selezione dei suoi spiccioli; nella tasca sinistra del panciotto introdusse alcune monetine d’oro; nella destra, qualche monetina d’argento; nella tasca sinistra dei calzoni, una abbondante manciata di soldoni, e nella destra, infine, una moneta d’argento da due franchi che aveva particolarmente esaminata.
«Singolare e minuziosa divisione!», osservai fra me.
Incontrammo un mendicante, che tese verso di noi il berretto, tremando. – Nulla conosco di più inquietante della muta eloquenza di quegli occhi supplichevoli, che contengono a un tempo, per l’uomo sensibile che sa leggervi, tanta umiltà e tanti rimproveri. Egli vi trova qualcosa che s’avvicina a quella profondità di complicato sentimento ch’è negli occhi lagrimanti dei cani frustati.
L’elemosina del mio amico fu assai più considerevole della mia, ed io gli dissi: «Avete ragione; dopo il piacere di rimaner sorpresi, non ve n’è alcuno maggiore di quello di produrre una sorpresa». – «Era la moneta falsa», egli mi rispose tranquillamente, come per giustificarsi della sua prodigalità.
Ma nel mio miserabile cervello, sempre intento a cercare l’assurdo (di quale estenuante facoltà mi ha fatto dono la natura!) entrò subitamente l’idea che un tal modo d’agire da parte del mio amico non fosse scusabile se non col desiderio di creare un avvenimento nella vita di quel povero diavolo, e fors’anche di sapere quali conseguenze diverse, funeste o no, possa produrre una moneta falsa in mano a un mendicante. Non poteva essa moltiplicarsi in monete buone? Non poteva anche condurlo in prigione? Un oste, un fornaio, per esempio, lo avrebbe forse fatto arrestare come falsario o come spacciatore di valuta falsa. O forse quella moneta sarebbe stata, per un povero piccolo speculatore, il germe di una ricchezza di pochi giorni. E così la mia fantasia galoppava, prestando le ali alla mente del mio amico e traendo tutte le deduzioni possibili da tutte le ipotesi possibili.
Ma l’amico troncò bruscamente la mia fantasticheria, riprendendo la mie stesse parole: «Sì, avete ragione; non c’è piacere più dolce di quello di cagionare sorpresa a un uomo donandogli più di quanto non speri».
Lo guardai nel bianco degli occhi e fui spaventato al vedere che quegli occhi brillavano di un incontestabile candore. Vidi allora chiaramente che aveva voluto fare, ad un tempo, la carità e un buon affare; guadagnarsi quaranta soldi e il cuore di Dio; portar via il paradiso a buon mercato; e infine pigliarsi senza spesa una patente d’uomo caritatevole. Gli avrei quasi perdonato il desiderio del delittuoso piacere di cui poco prima lo avevo supposto capace; mi sarebbe sembrato strano e singolare che si divertisse a compromettere i poveri; ma non gli perdonerò mai la meschinità del suo calcolo. Non si è mai scusabili d’esser malvagi, ma c’è un po’ di merito nel sapere che si è tali; e il più irreparabile dei vizi è quello di commettere il male per stupidità.
Charles Baudelaire
Da Lo spleen di Parigi, in Opere, dall’Oglio, Milano 1965
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E’ necessario che ci sia evento – dunque richiesta di racconto ed evento di racconto – affinché ci sia dono o fenomeno di dono affinché ci sia racconto e storia.
E questo evento – evento di condizione e condizione di evento – deve restare in qualche modo imprevedibile.
Il dono, come l’evento, come evento, deve restare imprevedibile, ma restarlo senza trattenersi. Esso deve lasciarsi strutturare dall’alea; deve apparire fortuito, essere vissuto in ogni caso come tale, compreso come il correlato intenzionale di una percezione assolutamente sorpresa dall’incontro di ciò che percepisce, al di là del suo orizzonte di anticipazione: e ciò pare già fenomeno logicamente impossibile.
Qualunque cosa ne sia di questa impossibilità fenomenologica, un dono e un evento prevedibili, necessari, condizionati, programmati, attesi, scontati, non sarebbero vissuti né come un dono né come un evento – e ciò è richiesto anche da una necessità insieme semantica e fenomenologica. Per questo la condizione comune del dono e dell’evento è una certa incondizionatezza (Unbedingtheit: lasciamo qui sospesa questa parola tedesca; essa dice qualcosa della cosa (Ding) e della non-cosa; dovremmo rileggerla altrove a partire da Heidegger, ricondurla ad Heidegger).
L’evento e il dono, l’evento come dono, il dono come evento, devono essere irrompenti, immotivati – per esempio disinteressati. Decisivi, devono lacerare la trama, interrompere il continuum di un racconto che essi tuttavia richiedono, devono perturbare l’ordine delle causalità: in un istante.
Devono, in un istante, in un colpo solo, mettere in rapporto la fortuna, il caso, l’alea, la tyche, con la libertà del colpo di dado, con il colpo di dono del donatore o della donatrice.
Il dono e l’evento non obbediscono a niente, se non a principi di disordine, cioè a principi senza principio. In ogni caso, se il dono o l’evento, se l’evento del dono deve rimanere inesplicabile a partire da un sistema di cause efficienti, questo è l’effetto di niente; non è più assolutamente un effetto, anche se ci sono, nel doppio senso della parola, effetti di dono: per esempio gli eventi aleatori creati dal dono di una moneta falsa e su cui speculano in fondo i due compagni.
E tuttavia – effetti di puro caso non costituiranno mai un dono, un dono che abbia il senso di un dono, se la semantica della parola dono sembra implicare il fatto che l’istanza donatrice abbia liberamente l’intenzione di donare, che sia animata da un voler-donare e innanzitutto dal voler-dire, dall’intenzione-di-donare al dono il suo senso di dono.
Che cosa sarebbe un dono con il quale donassi senza voler donare e senza sapere che dono, senza intenzione esplicita di donare, e cioè mio malgrado? E’ il paradosso in cui siamo coinvolti sin dall’inizio.
Non c’è dono senza intenzione di donare. Il dono può avere solo un significato intenzionale – nei due sensi di questa parola, che rinvia tanto all’intenzione quanto all’intenzionalità. D’altra parte, tutto ciò che appartiene al senso intenzionale fa anche correre al dono il rischio di trattenersi, di essere trattenuto nel suo stesso dispendio.
Di qui la difficoltà enigmatica che abita in questa evenemenzialità donatrice. Ci vuole del caso, dell’occasionalità, dell’involontario, cioè dell’incoscienza o del disordine, e ci vuole della libertà intenzionale, e un accordo – miracoloso, gratuito – di queste due condizioni, l’una con l’altra.
Jacques Derrida
da Donare il tempo La moneta falsa, Raffaello Cortina Editore
Capitolo 4 “La monta falsa” II Dono e contro-dono, la scusa e il perdono (Baudelaire e la storia della dedica)
Molto bello l’abbinamento dei due frammenti che si spiegano e confondono a vicenda. Il dono esula dalla reciprocità o da un secondo fine, ma, in fondo, quanto siamo ipocriti e condizionati!